Non partire dal libro Il Sistema, vergato da Luca Palamara e Alessandro Sallusti, per osservare oggi la magistratura italiana, la sua storia, i suoi assetti e le sue prospettive, sarebbe come farci un’idea della democrazia ateniese dopo i Trenta Tiranni senza leggere l’Apologia di Socrate: e non perché Palamara sia Socrate, oppure il suo libro valga l’Apologia, intendiamoci. Uso quest’iperbole per dire un’ovvietà: quando vuole giudicarsi (dal tribunale della storia, da quello politico e anche da quello giudiziario) un periodo o una fase, privarsi della testimonianza scritta di uno dei suoi protagonisti, per quanto parziale e inaffidabile quel testimone sia, è un’operazione insensata. Il libro, dunque. Esso ci consegna tre livelli di criticità molto diversi.

Il primo attiene alla degenerazione delle correnti in cui si articola la magistratura associata, in quanto veicoli di spartizione dei posti di rilievo dentro l’organizzazione della magistratura (che sia la nomina a Procuratore di Roma, la scelta dei componenti del direttivo della Scuola Superiore, oppure il conferimento della presidenza di sezione del Tribunale di Locri). Questo processo ha modificato e modifica l’assetto costituzionale formale (articolo 107 della Costituzione: «I magistrati si distinguono soltanto per funzione») e realizza un modello sempre più burocratico e gerarchico, asservito com’è a logiche di puro potere. Non che il merito non conti nulla, sarebbe falso sostenerlo, ma di certo il merito da solo non basta, posto che occorre il sostegno di un gruppo associativo.

Il secondo livello di criticità riguarda in termini generali la contiguità tra magistratura e politica, e non tanto tra questo o quel magistrato e questo o quel politico, ma, piuttosto, nella dinamica dei rapporti tra poteri costituzionali: la magistratura esprime opzioni politiche, spesso contrarie a una certa parte politica.

Il terzo – e più grave – livello di criticità vede il vero e proprio attentato, perpetrato grazie alla complicità tra la politica e alcuni organi costituzionali, tra cui lo stesso organo di autogoverno della magistratura (il Csm), alle garanzie di indipendenza della magistratura tutta nella persona del singolo magistrato: qui – cito i casi riportati nel libro dei magistrati Robledo, Forleo e Nuzzi – i poteri previsti a tutela dell’ordine giudiziario e, quindi, dell’ordinamento repubblicano nella sua interezza, sono stati piegati in modo abusivo al perseguimento di interessi personali e/o politici.

Di fronte a questi tre livelli di criticità emergenti dalla lettura del libro che reazione è in atto e cosa potrà accadere? Partiamo dalla reazione della politica e della società civile: mi pare che essa sia semplice, riassumendosi nella domanda se sia vero ciò che il libro testimonia e nell’affermazione che, per sostenerlo, occorre effettuare tutte le verifiche necessarie (alcune a livello politico: l’evocata commissione parlamentare d’inchiesta; altre a livello giudiziario, quando ipotesi specifiche di responsabilità sembrino stagliarsi nitidamente). Di certo, la società civile nelle sue varie articolazioni sta mostrandosi stupefatta e anche sconcertata che la magistratura tardi a reagire. Poi c’è, appunto, la reazione della magistratura: sconfortata, smarrita, indignata, addolorata, la magistratura italiana sta cercando una via e una voce per reagire. Obiettivamente, non è facile. Ma tutto si può fare, ripeto, fuorché ignorare o minimizzare quel libro. Che fare, allora?

Cercherò di esprimere il mio pensiero, ripercorrendo i tre livelli di criticità sopra segnalati. Degenerazione o strapotere delle correnti: esso si nutre dei processi di designazione ed elezione dei componenti togati del Csm, da un lato, del potere di assegnare singoli magistrati a posti di rilievo, dall’altro, della discrezionalità di cui l’organo di autogoverno gode nell’esercizio di quel potere, dall’altro ancora. Ma esso si nutre anche della grande illusione – inalata dalla magistratura italiana e dalla società nel suo insieme come un assenzio stordente – che, con le riforme Castelli-Mastella, si sia finalmente introdotta la meritocrazia nella magistratura. Questo è falso, perché il merito è passato per le maglie delle scelte correntizie. Ed è falso ancora più a monte, perché i magistrati si distinguono per funzione, secondo la Costituzione (il che vuol dire che il presidente di tribunale è un collega dei suoi giudici, che coordina il lavoro di tutti per un buon esercizio della giurisdizione a tutela dei cittadini).

Allora: il primo livello di criticità si affronta ripensando radicalmente l’ordinamento giudiziario, riducendo largamente la discrezionalità del Csm nelle nomine, introducendo la rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi, valorizzando l’anzianità senza demerito e il costante, umile esercizio della giurisdizione. E naturalmente, rifondando i modi in cui i magistrati debbono scegliere i propri rappresentanti al Csm (ad esempio introducendo il sorteggio temperato o favorendo meccanismi elettorali capaci di supportare una scelta libera dei magistrati in direzione dei colleghi più stimati nei vari distretti di corte d’appello).

Il secondo livello di criticità, ovvero della politicizzazione della magistratura: esso attiene ad una seria analisi autocritica del passato anche recente dell’Associazione Nazionale Magistrati, improntata a una domanda serena e onesta: la magistratura ha agito e/o agisce anche come soggetto politico? E se sì, in che senso? Su questo aspetto, la magistratura italiana oggi è molto divisa, sicché l’invocata unitarietà mi pare ridursi a mantra retorico di auto-rassicurazione. Propenderei per una netta presa di distanza da modelli di militanza politica, anche se spacciata per militanza culturalcostituzionale. A ciò si collega, d’altra parte, la necessità di regole certe sulla collocazione fuori ruolo dei magistrati per chiamata politica e sulla stessa partecipazione dei magistrati alla vita politica mediante loro candidatura in competizioni elettorali.

Infine, il terzo livello di criticità: sugli aspetti gravissimi che emergono dal libro, non può esserci che analisi storica, politica e giuridica, rigorosa e immediata. Ogni magistrato deve sapere, nei prossimi mesi, e non nei prossimi decenni, se i fatti specifici narrati nel libro corrispondono o meno a verità. Non so se la commissione parlamentare sia il rimedio giusto; forse, giunti a questo punto, è necessaria. Ma la magistratura che lavora ogni giorno sui processi – questo deve essere chiaro – è scottata dagli interventi politici che partorirono la riforma dell’ordinamento giudiziario. Quella visione si è rivelata miope e perniciosa, sicché verso una politica sostanzialmente indifferente alle radici dei mali della giustizia quotidiana alligna in noi magistrati un buon grado di diffidenza.

Tuttavia, vada come vada con le scelte parlamentari, è certo che il diritto alla verità ce l’hanno i magistrati forse prima ancora che i cittadini. Questo, oggi, deve diventare la priorità dell’organo di autogoverno e di ogni forma di risposta sistemica, fuori e dentro l’Associazione nazionale magistrati poco importa, che la magistratura intenderà proporre, e anche opporre, al dibattito della società civile e, in specie, ai poteri legislativo e esecutivo. E, si badi, non per un redde rationem interno, non perché qualcuno debba innalzarsi a vittima in cerca di vendicatori angelici, non perché bisogna cacciare i cattivi e prendersi i buoni.

Ciò che non può essere eluso è un impegno totalmente volto a constatare ciò che è avvenuto e cercarne le ragioni: solo l’autorevolezza pacata con la quale la magistratura saprà affrontare l’evidenza dei fatti e delineare le misure più utili a che non si ripetano in futuro, farà elevare il vero controcanto al racconto di Palamara e Sallusti capace di ridare piena credibilità all’operato della magistratura. In questo, la magistratura napoletana potrà rivelarsi cruciale. Altrimenti il controcanto lo intoneranno altri, che potranno non essere animati dall’unica intenzione da non violentare: il diritto di tutti al giudice indipendente e imparziale.