“Il metodo Palamara funziona anche a Napoli”, l’accusa del Pm Raffaele Marino

«Lo scenario è angosciante se si pensa non solo alla spartizione degli incarichi tra le varie correnti in base a logiche che poco hanno a che vedere col merito, ma soprattutto alla tendenza a eliminare per via giudiziaria i concorrenti del magistrato destinato a un certo ufficio. Anch’io sono vittima di certi metodi, a riprova del fatto che Napoli rientra a pieno titolo in questa organizzazione». Raffaele Marino ha appena finito di leggere Il Sistema, il libro-intervista in cui l’ex pm Luca Palamara descrive gli scandali che agitano la magistratura italiana, quando accetta di svolgere alcune riflessioni sulla situazione delle toghe napoletane.

Per anni icona della lotta alla camorra e procuratore aggiunto a Torre Annunziata, Marino è oggi sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, quindi conosce bene le dinamiche della magistratura descritte da Palamara. La prima è senza dubbio la lottizzazione degli incarichi realizzata attraverso “nomine a pacchetto” e accordi di cartello tra le varie correnti che animano il Csm. Per quanto riguarda questo aspetto, tra i vari casi di nomine votate all’unanimità sulla base di precedenti accordi Palamara cita quello dei procuratori generali di Milano, Roma e Napoli. Senza dimenticare che, almeno secondo quanto si legge ne Il Sistema, le correnti non si sarebbero risparmiate reciproci colpi bassi anche per quanto riguarda la nomina dei vertici della Procura di Napoli e della Direzione nazionale antimafia. Segno che certe logiche sembrano aver attecchito anche nel capoluogo campano in tempi non sospetti. «Ciò che più inquieta – osserva Marino, in passato leader partenopeo di MD  – non è il gioco delle correnti che si svolge da sempre, quanto la tendenza a estromettere i concorrenti del collega già individuato per ricoprire un certo incarico».

Proprio di questo metodo Marino si ritiene vittima. In passato, infatti, il pm era tra i più autorevoli aspiranti al ruolo di procuratore aggiunto di Napoli. La sua esperienza in materia di lotta alla criminalità organizzata lo collocava in pole-position tra i magistrati che ambivano a quella funzione e, soprattutto, alla guida del Direzione distrettuale antimafia. A pochi giorni dalla decisione del Csm, ecco l’amara sorpresa: Marino, all’epoca aggiunto a Torre Annunziata, finì sotto inchiesta per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravati dalla collusione con la camorra nell’ambito di un’inchiesta sui rapporti tra un carabiniere, suo ex collaboratore, e un imprenditore. «Ci sono indizi gravi, seri e concordanti per ritenere che a qualcuno non andasse giù che fossi io a ricoprire la casella di aggiunto a Napoli», riflette il pm a distanza di dieci anni.

A questa vicenda, nel suo libro, Palamara non fa alcun riferimento pur conoscendola bene: era lui il relatore della pratica sulla base della quale il Csm avrebbe dovuto restituire le funzioni direttive a Marino, nel frattempo assolto in sede penale e disciplinare, assegnandogli il ruolo di aggiunto a Napoli o a Torre Annunziata. Così non è andata, tanto che il sostituto procuratore generale partenopeo si è rivolto al Tar che dovrebbe esprimersi a marzo. Ma c’è un’altro caso con contorni simili: quello di Paolo Mancuso, magistrato in pensione e oggi presidente del Partito democratico napoletano. «Mancuso, anni fa, era procuratore di Nola e in corsa per succedere a Lepore alla guida dei pm di Napoli – racconta Marino – All’improvviso, però, spuntò l’intercettazione di un sms dal quale si sarebbe dedotto che Paolo avrebbe chiesto una raccomandazione. Successivamente la vicenda si sgonfiò e Mancuso fu scagionato in tutte le sedi. Fatto sta che l’incarico al quale poteva tranquillamente ambire, in virtù della sua esperienza e dei suoi titoli, non gli fu assegnato».

In certi casi, secondo quanto rivelato da Palamara e confermato da Marino, il metodo preferito dal Sistema sarebbe «l’omicidio del concorrente», per giunta «perpetrato con l’arma giudiziaria». «Uno scenario simile scoraggia quei magistrati che legittimamente nutrono delle ambizioni professionali e che, alla luce di certi episodi, preferiscono non esporsi al rischio di azioni giudiziarie – evidenzia Marino – In questo modo l’amministrazione della giustizia viene affidata non ai candidati migliori, ma solo a quelli in grado di preservare certi equilibri politici». La conseguenza più grave, tuttavia, è la compromissione dell’immagine della magistratura non solo a Roma, città dove Palamara si muoveva con particolare disinvoltura, ma anche nel resto d’Italia: «Certe dinamiche non sono semplicemente deprecabili – conclude Marino – ma sono la morte della nostra categoria: con quale credibilità si continua ad amministrare la giustizia alla luce di vicende così gravi?»