Abbiamo incontrato Gilberto Pichetto Fratin, il ministro di Forza Italia che nella compagine di governo rappresenta l’ambientalismo del fare, per una conversazione sull’agenda di governo.

Forza Italia era data per morta e invece è risorta. è nel Ppe, e nel governo la forza popolare, liberale, moderata. Funziona la coabitazione con Lega e FdI?
«Lo stato di salute di FI è ottimo. La salute dei partiti si misura col voto e il risultato delle ultime elezioni parla da solo. Il rapporto nell’ambito della maggioranza è un accordo tra tre forze politiche, ciascuno con la sua posizione, improntato alla realizzazione di un programma che stiamo portando avanti insieme. Noi ci riteniamo i rappresentanti del mondo liberale e quindi di quel centro che sta tra le due ali».

Ursula von der Leyen è stata da poco rieletta, lei come ministro che lavora con l’Europa è soddisfato? Fosse stato in Parlamento europeo l’avrebbe votata?
«Ursula von der Leyen è stata indicata dal Ppe, voluta dal congresso del Ppe. Con un dibattito interno che non ha visto l’unanimità. Già l’ultimo periodo del suo mandato aveva rappresentato significativi cambi di rotta e rappresenta un punto di equilibrio tra forze diverse della coalizione».

Anche sul Green Deal la convince, o da parte italiana c’è stata moral suasion per chiederle di rivedere certi eccessi?
«C’è stato un cambiamento, come dicevo, nel suo ultimo periodo. Ha messo da parte gli eccessi ideologici di Timmermans, e credo che su questo abbia pesato anche la posizione dell’Italia. Che non era ideologica ma realistica: pensiamo al regolamento imballaggi, pensiamo al grande cambiamento che c’è stato sulla normativa per i fabbricati, sulla quale io ho espresso voto contrario. Perché non si può proporre un cambiamento e poi non dare gli strumenti per arrivarci: se c’è un obbligo, deve esserci anche un meccanismo di intervento. Perché le caratteristiche italiane ci dicono che i 2/3 dei fabbricati necessitano di un intervento sulla decarbonizzazione. Condividiamo l’obiettivo sulla neutralità nel 2050, ma diciamo la nostra sui percorsi per arrivarci, privilegiando scelte non ideologiche».

Furia ideologica che vediamo spesso, con certi estremismi sul riscaldamento globale…
«Esistono, eccome. Esiste anche la resistenza assoluta e la negazione. Bisogna essere equilibrati. Quando si parla di obiettivi a lungo termine è facile lasciarsi andare ai sogni. E la Commissione europea in questi anni non ne è stata priva, anche in modo violento e prevaricante».
Ricordiamo, ministro, un suo intervento emozionato nel rispondere a una studentessa che manifestava ansia per il global warming.
«La mia commozione era dovuta all’avermi richiamato i miei nipoti. L’attenzione delle nuove generazioni alle necessità di intervento sul fronte ambientale è percepibile e molto più forte di prima. Nel mio ruolo, sono temi che sento in modo molto sensibile».
Si riscalda il pianeta ma si va desertificando anche, sul fronte industriale, la produzione automobilistica in Italia. Come mai?
«Italia e automotive: un binomio a me molto caro. Me ne sono sempre occupato molto. Il fronte automotive in Italia ha 270.000 occupati diretti a cui possiamo aggiungere 250.000 artigiani con 350.000 occupati. Con l’indotto indiretto si supera ampliamente il milione di occupati. Rimane il più grande comparto produttivo italiano. Anche perché possiamo dire che le auto tedesche sono fatte con la componentistica italiana. Poi ci troviamo naturalmente a dire che se ne fanno meno: da cosa dipende? Dal fatto che eravamo rimasti con un unico produttore, per una lunga storia. Non abbiamo lasciato acquistare Alfa Romeo o Lancia da altri, abbiamo concentrato tutto su Fiat e quando Fiat non c’è stata più abbiamo visto cambiare il rapporto con le aree di produzione. Sono piemontese ma non faccio più richiamo al cuore, su questo: siamo competitivi sulla componentistica».

Potremmo tornare competitivi sul prodotto finito?
«Sì, dobbiamo trovare il modo di tornare attrattivi. E credo che alcuni percorsi possono esserci. L’elettrico, ad esempio. Anche su questo, evitiamo gli ideologismi. All’obiettivo 2035 mancano adesso 11 anni. Non possiamo escludere né precludere. Rimarranno motori endotermici, anche se sono convinto che la parte del leone la farà il motore elettrico, che ha sette volte meno la meccanica dell’endotermico. E noi dobbiamo fare una battaglia nazionale sul biocarburante. Con una scelta tutta europea sulla cosiddetta tassonomia viene escluso il biocarburante, ed è un peccato. Ha emissioni abbassate del 90-95% e quando parliamo di neutralità tecnologica dobbiamo misurare la captazione all’origine della produzione dei biocarburanti. C’è insomma una parte di produzione di componentistica anche dei motori che può continuare quella tradizione produttiva nazionale».

Parliamo di un modello molto diffuso, la Cinquecento. Quella a benzina, la più venduta, è prodotta in Polonia. Quella elettrica a Mirafiori. Si può pensare di portare a casa anche il modello a benzina?
«Abbiamo impianti che sarebbero adattabili a motori endotermici. Può starci, anche al Sud ci sono impianti pronti. Ma possiamo sviluppare in modo anche più importante l’elettrico».
La fine anticipata del motore termico crea un problema industriale per l’Italia che ne era un Paese produttore. Il governo è disposto ad attivare i temporary framework per attirare la componentistica per le auto? C’era lo stabilimento di Bari-Modugno dove Fiat faceva i motori diesel, e ora?
«Sì, il motore endotermico può essere prodotto. E vista la nostra esperienza, il know how delle nostre maestranze, credo che possano esserci davvero opportunità per il futuro».

C’è stata polemica per l’Alfa Romeo che ha cambiato nome al modello Milano. E ora si chiama Junior. Forse dobbiamo guardare più alla sostanza, per esempio compensando le produzioni meccaniche delle auto con una filiera italiana forte sulla componentistica.
«Sì, credo che sia un tutt’uno. Non mi fermo alla questione nominalistica. Guardiamo alle cose sostanziali: le conoscenze e le competenze che abbiamo. Possiamo incrementare la filiera italiana componentistica. Non possiamo pensare all’Italia come qualcosa di separato dalla Germania. Le due grandi manifatture europee, quella tedesca e quella italiana, sono integrate l’una con l’altra».

Proprio sull’automotive lo vediamo chiaramente…
«Le auto tedesche sono auto italiane. Con il rammarico che poi il prodotto finito viene però presentato come tedesco, pur avendo una partecipazione italiana colossale».

Il piano Marshall cambiò volto all’Italia, a partire dal finanziamento dell’Autosole e altre grandi opere. Qui 70 miliardi di PNRR sono già stati spesi senza che ci sia stata un’opera monumentale…
«Il Pnrr è nato così, come risposta al post-Covid. Facile ora andare a criticare chi c’era prima. Sono convinto che potevamo fare una quantità di grandi opere. Nella posizione in cui sono penso che potevamo avere in tutta Italia tanti termovalorizzatori da azzerare tutti i problemi dell’immondizia. Potevamo fare opere colossali per l’idrogeologico. Le dighe necessarie a raccogliere l’acqua, visto che raccogliamo solo l’11% dell’acqua piovana: in Europa si attrezzano con le dighe per la siccità e per ricavarne energia».

E’ da poco stato a Cadarache, in Francia, per visitare il cantiere di Iter, il progetto per la costruzione della più grande macchina al mondo per la fusione nucleare, che vede in prima linea la filiera italiana. Quale ruolo attribuisce alla ricerca sul nucleare?
«Una valenza fondamentale. Sia sul nucleare di quarta generazione di fissione sia sulla fusione. A parte la ricerca che ha su tutti i campi dei risvolti fondamentali. Le previsioni sul futuro ci dicono che avremo una domanda di energia più che doppia rispetto all’attuale. Per riuscire a rispondere e ad essere competitivi noi dovremo avere un mix energetico che contempli un po’ tutto. La discontinuità di eolico e fotovoltaico deve avere un naturale completamento con il nuovo nucleare, che non è neanche parente del vecchio. Siamo un paese che malgrado i quarant’anni di assenza di produzione interna ha mantenuto un livello di competenze e di operatività altissimo, sul nucleare. In questo grande impianto francese ho trovato cento italiani che lo guidano. E pensi che l’ultima grande centrale nucleare costruita in Europa è stata fatta da Enel, in Slovacchia.

Che paradosso, ministro. Italiani che lavorano nel nucleare in Europa, e noi dobbiamo comprare l’energia nucleare dalla Francia, dall’Austria, dalla Slovenia perché ci rifiutiamo di produrlo in casa…
«Anche queste sono ragioni ideologiche che hanno frenato la nostra competitività».

Dal punto di vista dell’impatto ambientale, come valuta nell’insieme la riconversione delle industrie energivore italiane?
«Siamo abbastanza avanti. Alcuni settori hanno difficoltà a decarbonizzare completamente. Da qui una serie di misure che stiamo prendendo, inclusa la cattura della Co2. Stiamo parlando di stoccaggio della Co2 nei giacimenti di gas esausto nell’Adriatico».

Azione già intrapresa?
«Stiamo per muoverci in questo senso. Non siamo all’anno zero sotto il profilo industriale. Questo nostro percorso deve vederci impegnati su fabbricati, trasporti (con la modernizzazione del parco veicoli, che va svecchiato), agricoltura con l’avvio di aziende agricole moderne in grado di produrre biomasse. Aggiungo l’impegno sull’idrogeno».

Ci chiarisca, sull’idrogeno ci sono pareri discordanti…
«Noi sull’idrogeno lavoriamo per la produzione nazionale di idrogeno, abbiamo gestito più di 3 miliardi e mezzo su ricerca e iniziative di produzione come l’Hydrogen valley a vari livelli. E stiamo costruendo con l’Austria e la Germania – a cui si aggiungerà la Svizzera – il SoutH2 Corridor dell’idrogeno. Un progetto che si congiunge al Piano Mattei in Africa e che prevede 3300 chilometri che attraverso l’Italia arriveranno in Baviera. Possiamo essere un grande produttore e anche lo smistatore a favore di altri: è un grande asset strategico per il nostro Paese».

Abbiamo punte di eccellenza anche nei brevetti per le rinnovabili, sul fotovoltaico, sull’eolico offshore, perfino sullo storage dell’energia termica nelle batterie industriali…
«Sì, siamo in una partita globale con punte di eccellenza. Ma ci sono partite legate al costo, e la Cina su questo è competitiva. La Cina è padrona del litio e ne è anche la più grande trasformatrice. Lavora l’85% del litio mondiale, controllandone la metà».

Sulle terre rare l’Italia può giocare una partita?
«Certo che sì. Possiamo e dobbiamo. Abbiamo anche un grande giacimento che ci viene dall’economia circolare: la miniera dell’immondizia. Stiamo lavorando con Ispra a una mappatura a livello nazionale dei luoghi dove possono esserci giacimenti di terre rare. Ci possono essere terreni poco esplorati anche da noi».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.