Sono entrata in carcere per la prima volta, come vicedirettore della Casa Circondariale di Genova Marassi, il 24 giugno 1991, avevo 27 anni. Il primo impatto con un istituto di pena vecchio e fatiscente com’era allora Marassi, con quattro piani di ballatoi, i soffitti a volta che ospitavano anche piccioni svolazzanti e le reti antisuicidio tra un piano e l’altro, non fu dei migliori. Mi colpivano gli odori e, soprattutto, i rumori incessanti di cancelli, chiavi, voci umane che si sovrapponevano, tra poliziotti e detenuti: una quotidianità insostenibile per entrambe le categorie.

Era appena stata emanata la legge di smilitarizzazione del Corpo degli Agenti di Custodia che, 10 anni dopo quella della Polizia di Stato, dava vita al Corpo di Polizia Penitenziaria. La riforma aveva creato nuovo entusiasmo e nuova carica per gli uomini e le donne in divisa, rafforzando anche in me, neofita di quel mondo, la motivazione a lavorare nella direzione indicata con nettezza dalla Costituzione e dalla legge. Ero entrata in un mondo di uomini. Quello che più mi colpiva era la contraddizione palese, apparentemente senza rimedio, tra la giornata detentiva che la legge, i regolamenti e le circolari descrivevano e quello che si consumava ogni giorno: un tempo sempre uguale, scandito dal ritmo dell’istituzione totale, spazi privi della benché minima possibilità di personalizzazione, totalmente anonimi. 500 uomini eterodiretti dal tempo istituzionale.

Com’era lontana quella “individualizzazione del trattamento” che l’ordinamento penitenziario pone alla base di ogni serio percorso di risocializzazione; sembrava un’utopia pensare che i detenuti potessero lavorare, andare a scuola, formarsi, conquistare gradualmente una definitiva libertà. E la cornice ambientale e relazionale era, ovviamente, di una durezza che mi sembrava quasi spietata, nei rapporti tra colleghi, tra “superiori” e “subordinati”, con i detenuti. In quei miei primi tre anni e mezzo assistetti impotente al suicidio di un detenuto e di ben due poliziotti, di cui uno giovanissimo, che conoscevo bene. Riappropriarsi degli strumenti che la legge offre per dare un senso al tempo e allo spazio della detenzione non era cosa facile, in quel contesto, ma sentivo nettamente che quell’istituzione così foriera di dolore per chi la abitava e per chi vi lavorava doveva essere trasformata e restituita alla sua funzione, quella di un posto dove si eserciti un servizio pubblico, non un potere assoluto, a beneficio di tutti.

Il ruolo femminile

Un dato era però palpabile: la presenza quotidiana di un pur esiguo numero di donne dava un contributo diverso, un’attenzione all’aspetto relazionale che si affiancava al verticismo maschile preponderante, rendendo il clima più respirabile, tanto nei rapporti con l’utenza che tra gli operatori. Molti anni dopo, nel 2011, quando sono entrata, a Milano, nella Giunta Pisapia come assessora, in un contesto lavorativo totalmente diverso, ho percepito la stessa sensazione. Sono tornata in carcere nel 1995. L’antico castello medioevale di Eboli, trasformato in istituto penitenziario a custodia attenuata per giovani detenuti tossicodipendenti, ospitava allora una quarantina di ragazzi con problemi di droga. Fu il mio primo incarico come direttore e mi consentì, con una buona squadra di operatori e operatrici e una solida collaborazione con i Servizi per le tossicodipendenze della Asl, di impostare percorsi che restituivano al penitenziario la sua funzione di servizio pubblico all’utenza detenuta, alla magistratura e ai cittadini liberi. Provammo, con discreto successo, a retrocedere nell’esercizio del potere assoluto e nella organizzazione della giornata detentiva dai ritmi sempre uguali, a favore di una progressiva responsabilizzazione dell’utenza, in termini di gestione di luoghi, spazi, attività che connotano la giornata. L’obiettivo era uno solo: l’abbattimento della recidiva.

Le offerte

“Il carcere che funziona deve produrre libertà” era un principio espresso da un grande maestro, il magistrato di sorveglianza Alessandro Margara. In sintesi, la produzione di libertà, per quanto possibile definitiva, era il nostro obiettivo. Qualche anno più tardi, nel 2002, ho avuto la fortuna di sperimentare lo stesso modo di lavorare, stavolta sui grandi numeri e in una grande città, Milano. La Seconda Casa di Reclusione di Bollate nasceva come istituto a custodia attenuata, in cui venivano offerte all’utenza detenuta le più svariate opportunità di studio, lavoro, formazione professionale. Si concretizzava quella individualizzazione del trattamento che l’ordinamento penitenziario pone alla base della qualità stessa della pena detentiva. E lì, con una maggioranza di uomini e un significativo apporto di donne, ho lavorato nove anni alla costruzione di una detenzione costituzionalmente orientata. Questo è ancora il mio impegno di oggi.

Lucia Castellano

Autore

*Provveditrice Amministrazione Penitenziaria della Campania