Caro Paolo,
lui mi aveva chiamato signora”, cosa che detesto, io lo avevo affumicato con sbuffi di gauloises papier mais, quelle gialle, simbolo del sessantotto francese, e lui odiava il fumo. Non proprio un incontro d’amore, quello tra una femminista poco virtuosa e un salutista, quando ho visto per la prima volta Silvio Berlusconi. Era il 1993, io ero in Parlamento, dove ero entrata un anno prima, da infiltrata radicale nelle file di Rifondazione, ma ormai un po’ ammaccata da un matrimonio politico che non aveva funzionato dal primo giorno. Lui aveva già in mente il nuovo partito e la scalata a Palazzo Chigi, ed era in cerca di “volti nuovi”, come si fosse sul set di un film pubblicitario. Ancora non se ne sapeva molto, di quel progetto, ma già a Milano i tram arancioni percorrevano la città con quelle scritte “Fozza Italia!”, proprio con due zeta, come avrebbe pronunciato un bambino il grido d’augurio per la nazionale di calcio. E non sarà un caso il fatto che in seguito, quando il partito c’era già, quando aveva sbaragliato tutti gli altri e noi ne eravamo così fieri, lui, Silvio, abbia sempre voluto definirci “gli azzurri”.

Ma io sapevo ancora poco di quel progetto. Naturalmente conoscevo la fama dell’imprenditore, che ammiravo solo come presidente del Milan, la mia squadra fin da quando ero bambina. Ma avevo anche scritto un paio di articoli contro di lui sul Manifesto, in sostegno a un comitato di cittadini che protestavano per il rumore assordante degli aerei in partenza e arrivo su Linate, sostenendo che lui avesse fatto spostare le tratte per interesse delle proprie aziende. Una stramberia, a pensarci oggi, ma noi ragazzi di sinistra eravamo fatti così, ideologici e sognatori e pronti a batterci contro “il potere”. Naturalmente ero curiosa, dopo quella telefonata di Marinella, la mitica più che segretaria che diventerà nostra amica e confidente, “buongiorno onorevole, posso passarle il dottor Berlusconi?”. Così ero andata da lui, in via dell’Anima, dove aveva già stanziato il quartier generale del futuro partito.

La legislatura volgeva al termine, la politica era, come si diceva in Sicilia di certe vittime predestinate, “un morto che cammina”, i condottieri coraggiosi che avevano osato autodefinirsi Mani Pulite avevano disseminato il campo di morti e feriti, con le carceri piene e 41 suicidi sul terreno. Ogni mattina alle sei in punto Marco Pannella riuniva i penitenti in una sala di Montecitorio. Erano deputati e senatori inquisiti ma non arrestati solo perché godevano di quell’immunità che poi, proprio al termine di quell’anno, un voto sciagurato finirà con l’abolire. Alcuni di loro in seguito in carcere finiranno davvero, come l’ex ministro liberale Francesco De Lorenzo.

Io ero vicepresidente della Commissione giustizia della Camera e le carceri le giravo come avevo sempre fatto, seppur con fatica, da giornalista. Tanto che, al momento della mia elezione nel 1992 uno dei primi telegrammi di congratulazioni era firmato da Luigi Pagano, il mitico direttore di San Vittore, e diceva “adesso può entrare quando vuole”. L’avevo stressato parecchio, poi siamo diventati, e siamo grandi amici. Il mio slancio appassionato per i diritti civili Silvio Berlusconi lo conosceva. È sempre stato una persona, sia da imprenditore che da capo politico, molto attenta. Si era informato sulla mia storia politica, sapeva perfettamente dei miei giri nelle carceri. Dopo le elezioni mi aveva offerto un posto nel suo primo governo, come sottosegretario alla giustizia con delega agli istituti di pena. Incarico che fu bloccato dal presidente Scalfaro, secondo il quale soltanto a sentire il mio nome si sarebbero ribellati tutti i direttori delle carceri italiane. Berlusconi sapeva tutto di me, dunque. Pure, quel giorno del nostro primo incontro, chissà perché, volle mettermi alla prova. “Signora, lei che cosa intende fare per le donne?”.

Avrei voluto saltargli alla giugulare. Mi ero limitata a una risposta secca: “Niente”. Aveva retto il gioco degli sguardi. Finché io, vecchia femminista sensibile alle provocazioni, avevo aggiunto “Io mi occupo di giustizia, non di donne”. Era il motivo per cui avevo deciso di abbandonare la sinistra, dopo aver lavorato per vent’anni al Manifesto,quotidiano comunista”, ed esser stata eletta, per quanto come indipendente pannelliana, con Rifondazione. Lo avevo fatto con una lettera inviata al Giornale: “Perché io compagna abbandono i compagni”. Avevo spiegato che non ne potevo più delle loro ipocrisie, della mancanza di progetto, della burocrazia che uccideva i sogni, della loro incapacità di credere davvero allo Stato di diritto, con garanzie uguali per tutti, dai “compagni che sbagliano” fino agli imputati per delitti di mafia. Ero sola, avevo scritto, ero lì in Parlamento a combattere a mani nude la mia battaglia per la giustizia. Loro erano sempre occupati in altre faccende, piccole beghe di partito di piccoli uomini. Sarebbe stato Silvio Berlusconi la mia risposta?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.