Per anni, e ancor oggi, una domanda ha appassionato milioni di calciofili: Maradona è davvero meglio di Pelè, come sostiene la canzone che accolse el pibe de oro al suo arrivo a Napoli il 5 luglio 1984? Oppure la leggenda della perla nera è destinata a prevalere? La domanda può apparire futile, una chiacchiera da bar. Tuttavia, piaccia o meno, il gioco del pallone ha caratterizzato il Novecento almeno quanto il cinema, sviluppando intorno ai propri miti un’economia di scala planetaria. Il quesito su Pelè e Maradona (altre figure come Messi sono ormai in offside da tempo) è dunque più che un ozioso passatempo e mette in gioco la dimensione epica del football: una grande narrazione collettiva i cui eroi rappresentano sempre qualcosa che trascende l’immediatezza di se stessi e del gioco in sé. Per questo motivo la nota vicenda del referendum dell’anno 2000 sul migliore calciatore di ogni tempo, indetto dalla FIFA per sancire la mitologia “positiva” di Pelé e che vide invece dilagare l’adesione popolare intorno a Maradona, rappresenta un segnale sociologicamente ben più rilevante del quesito su due atleti.

L’aspetto centrale nel dualismo tra il fuoriclasse brasiliano e quello argentino – dualismo che non può essere spiegato, come pure in molti fanno, dalle rozze semplificazioni della statistica – si lega infatti allo scarto tra il potere politico-economico delle istituzioni sportive e l’immaginario del pubblico calcistico: perché il football non è soltanto un business e nemmeno uno spettacolo in senso tradizionale, quanto piuttosto una pratica che attraversa tutti i linguaggi della comunicazione, toccando nel profondo la vita quotidiana di uno sterminato numero di persone. Il motivo della popolarità del calcio è che in esso si concentrano alcune essenziali funzioni simboliche che non sono visibili alla stessa maniera nelle altre pratiche sociali: il conflitto diretto con l’altro da sé, il sentimento dell’identità collettiva, l’appartenenza a una comunità di senso, la possibilità di esprimere un sentimento collettivo.

Nel football, a differenza di quanto ormai accade in politica o negli altri “mondi” che compongono la società, è ancora possibile dire “noi” e credere che quella parola indichi davvero una condivisione di intenti e finalità, dunque una visione del mondo. Nelle narrazioni ancestrali della specie, su cui tuttavia ancora si modella strutturalmente lo storytelling del nostro tempo, un eroe è tale poiché incarna – nel proprio corpo così come nell’estetica delle proprie azioni – l’ideologia profonda di una comunità. Simile a un santo, sebbene in un’accezione laica del termine, assurto a tale condizione come lo stesso San Gennaro per decisione popolare, Diego Armando Maradona è ancora “invocato” sugli spalti degli stadi e delle arene virtuali dei media, dai tifosi argentini e soprattutto da quelli napoletani – supporters della squadra in cui si è davvero realizzata la sua esistenza sportiva e in cui ha preso corpo la sostanza del suo mito – non solo per ragioni di nostalgia, ma perché ciò che ha realizzato sui campi di gioco continua a rappresentare un senti-mento di affermazione collettiva che nessun altro – dai divi dello spettacolo a quelli della politica – ha mai nemmeno lontanamente saputo cogliere come lui, donandogli voce e immagine. Portandolo alla vittoria, seppure effimera, degli eventi sportivi. Più che un calciatore, quindi, Diego è letteralmente un’icona della rivalsa sociale e del mutamento dell’ordine dato. Incarna istanze che non trovano espressione altrove: è mito di “rinascita” che si fa carne in un’accezione disincantata – ma non poi troppo – delle figure messianiche.

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Docente di sociologia dei processi culturali all'Università degli Studi di Napoli Federico II