Il risiko nel mar della Cina
“Il mondo è mio”, storia di una guerra tra Usa e Cina che prima o poi scoppierà
La televisione australiana manda in onda una dichiarazione del suo primo ministro in carica secondo cui una guerra con la Cina non è più qualcosa di inimmaginabile e impossibile. Non che da adesso diventi probabile, ma neppure impensabile. Vedo queste news con mia figlia Liv Liberty che ha quasi 19 anni e ha vissuto per lo più negli Stati Uniti. Mi chiede se dunque ci sarà una guerra e io non so onestamente che cosa risponderle. Non mi sento di dire: sciocchezze, stai tranquilla, è un fuoco di paglia. È la seconda volta che un primo ministro australiano avverte che una guerra fra Cina, Stati Uniti, Australia e forse Regno Unito è possibile e così dice un numero crescente di nazioni affidabili e democratiche come il Giappone e perfino il Vietnam dalla sua capitale Hanoi: un Paese che combatté e vinse la guerra contro gli Stati Uniti grazie all’aiuto cinese. Per la prima volta due primi ministri australiani, quello in carica e il suo predecessore, hanno detto che una guerra con la Cina che finora era considerata impensabile né impossibile, adesso è possibile.
Liv mi chiede se sarebbe una guerra come le altre e rispondo che le nuove guerre non sono mai come le precedenti e cito la nota “Trappola di Tucidide”: «Quando di una guerra si parla troppo, alla fine scoppia». E perché potrebbe scoppiare? Perché Cina e Stati Uniti sono in stallo e quando due giocatori di scacchi sono in stallo dovrebbero dichiarare patta la partita. Nella realtà nessuno dichiara lo stallo e uno dei due fa la mossa sbagliata, quella della catastrofe. Liv vuole sapere che cosa è accaduto di nuovo in questi giorni e provo ad elencarlo. Tre notti fa a Hong Kong la polizia cinese ha arrestato alle quattro del mattino un centinaio di ragazzini, fra i 14 e 20, l’età degli altri miei due figli e fratelli di Liv, che vivono in Florida assediati dal Covid: «Li hanno portati via di casa, quei ragazzini di Hong Kong, legati, piangevano e urlavano in inglese e le guardie dicevano che sarebbero tornati dopo essere stati rieducati. Rieducati non è una buona parola».«No – conviene Liv – ma ci sarà dell’altro».
«C’è – dico io- da cinque giorni in Vietnam arrestano centinaia di cinesi entrati illegalmente e che sostengono di aver fame. Ma li rimpatriano. I vietnamiti non sono più molto amici dei cinesi anche se li hanno aiutati nella guerra contro gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Oggi sono più vicini agli Stati Uniti. «Accidenti – dice Liv – c’è altro?». «C’è una guerra di confine fra Cina e India. I cinesi non possono usare le armi da fuoco per la presenza degli osservatori dell’Onu e allora abbattono i soldati indiani a sassate e a coltellate e gli indiani stanno chiedendo il permesso di sparare per difendersi. Ma i cinesi costruiscono edifici nelle zone contestate». Liv mi chiede se sono davvero così aggressivi o se si tratta di propaganda. Rispondo che in tutte le loro conferenze stampa si dicono convinti di avere ragione in senso storico e politico: pensano che il mondo presto o tardi sarà cinese e che dunque è saggio cominciare a prepararlo».
Poi cerco di riordinare le informazioni delle ultime ore: l’Australia ha scatenato una sorta di guerra d’indipendenza per recuperare le aziende che sono state portate via con sistemi subdoli. Il partito filo-cinese australiano è oggi molto debole e tira un vento di riscossa. Poi c’è Taiwan, che ai tempi del colonialismo portoghese si chiamava Formosa ed è la grande isola in cui si rifugiò il generalissimo Chan Kai-Shek che aveva combattuto insieme ai comunisti di Mao Zedong contro gli invasori giapponesi e che poi aveva perso la guerra civile imbarcando il suo esercito per Taiwan che è una terra molto occidentale, oggi democratica, armata fino ai denti anche se non ha alcuna speranza, da sola, di resistere alla macchina militare di Pechino. Taiwan è armata, ma impotente, se da sola. Lo stesso dicasi per Singapore. Singapore è una città stato: ricchissima perché si è trovata fuori dalla Malesia ma nel centro dei traffici commerciali del mondo ed è una potenzia finanziaria. È amica dell’America, ma non vuole risse con la Cina. Ma sa che la Cina ha il progetto di mangiarsela in un solo boccone. Singapore è troppo piccola per possedere un esercito, ma conta sui vicini di casa, ciascuno dei quali si sente troppo piccolo e troppo solo per vedersela con la Cina.
«E l’America?» mi chiede Liv. Mike Pompeo, il capo della diplomazia americana, ha detto che gli Stati Uniti sono stanchi di avere a che fare con un Paese totalitario che cerca di ogni modo di limitare la democrazia, i mercati, la libertà e l’indipendenza degli altri Paesi e che gli Stati Uniti sono decisi a dire basta. Ma intanto, mentre matura la trappola (ormai un teorema) di Tucidide, il fronte anti-cinese si allarga. il Giappone ha appena dichiarato di non poterne più delle pretese marittime di Pechino che, del tutto abusivamente, sposta i confini delle acque territoriali come fa comodo alla Cina, erigendo delle enormi isole artificiali su cui costruisce base militari navali ed aeree sofisticatissime.
Ciò accade specialmente nel Mar Cinese del Sud, che non è soltanto cinese ma è il mare attraverso il quale ogni giorno passano migliaia di porta-container. Quest’area del mondo è perfetta per un casus belli: la Cina ha già rappresentato al Tribunale dell’Aja le sue richieste per spostare i limiti delle acque territoriali, e si è sentita dare torto ma non ha smantellato nulla, anzi seguita a costruire. Gli americani hanno intensificato il loro pattugliamento navale che diventa ogni giorno più provocatorio perché i chilometri si restringono. I cinesi hanno messo a punto un sistema d’arma di precisione laser in grado di saturare tutti i missili di difesa a bordo delle navi americane. I russi da parte loro hanno manifestato crescente simpatia per le rivalse di Pechino e hanno aumentato la pressione sulla Polonia e i Paesi baltici con manovre che impegnano sempre di più le due brigate che furono mandate da Barack Obama prima della sua uscita dalla Casa bianca.
E L’Europa? L’Europa sarebbe la Germania di Angela Merkel, il Paese più grande, potente e tecnologico del continente, ma si rifiuta di armarsi persino nei limiti del due per cento del prodotto lordo, un impegno che ha sottoscritto con tutti i membri della Nato. Non vuole saperne. Ha un esercito molto moderno ma è un esercito di lillipuziani, i suoi ministri non rispondono alle domande e sfuggono i giornalisti.
La Germania è il miglior partner commerciale della Cina in Europa e anche questo fa imbufalire Trump. Ma anche il governo italiano è molto filocinese, benché Trump dia le pacche sulla spalla a Conte chiamandolo “Giuseppi”. «Sì – dice Liv – capisco, ma perché la guerra?». «La guerra non è probabile, ma meno impossibile. Capisci la sottigliezza?». «No – risponde – chi dovrebbe cominciarla?». Forse si sparerebbe anche dalla Luna o dalle stazioni spaziali. O si spegnerebbero i satelliti e addio comunicazioni, ma la verità è che non sappiamo niente.
«E allora perché ne parliamo? » chiede lei. «Ne parliamo perché cresce il numero di quelli che la considerano persino probabile. Qualche anno fa il vecchissimo Henry Kissinger disse che non ci sarà mai vera pace se prima non saranno sconfitti Cina, Russia e Iran. Oggi questi tre Paesi sono alleati e anche questo è un elemento di rischio. Ecco perché l’esplosione a Beirut ha scatenato la gente per strada: perché si sentono sotto il controllo iraniano degli Hezbollah, che sono a loro volta molto legati ai cinesi e ai russi». Mia figlia mi chiede perché se ne parli molto poco in tv e sui giornali. Dico che si fa un grande sforzo per fare finta di niente, come accadde nel 1938 quando tutti parlavano di andare al mare e la guerra arrivava. Liv insiste: «Ma perché ora?». Rispondo che la Cina produce troppo più di quel che le serve e lo fa soltanto per poter vendere agli americani, ai tedeschi e al resto del mondo. Se non vende, non mangia. Ecco perché i cinesi delle zone di confine scappano.
Anche la Cambogia è furiosa con la Cina: i cinesi stanno invadendola e senza chiedere il permesso costruiscono mostruosi edifici commerciali abbattendo quelli cambogiani, e guai a protestare. Anche i cambogiani non hanno la forza per resistere, ma sperano che si formi una coalizione di tutti coloro che si sentono bullizzati dalla Cina e si augurano ovviamente che gli americani guidino la cordata. E la guerra commerciale è un braccio di ferro. Poi c’è la Russia che va malissimo. Putin, benché candidato zar unico, crolla nei sondaggi e la piccola classe media che vive di solo petrolio ha fame. Trump non è un guerrafondaio ma un giocatore e un mediatore. Ma fra ottanta giorni si gioca la testa alle elezioni. Le elezioni americane (e se vincesse Biden, un falco filo-ucraino?) e poi la via della seta, la richiesta di non usare più il dollaro nelle transazioni internazionali, la missilistica cinese, i vini cinesi: troppe variabili. Per non dire del maledetto virus che c’è e e non c’è, ma c’è.
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