Woke corner
Il moralismo della cancel culture, quando è più facile puntare il dito sugli altri che lavorare su se stessi
Alcuni anni fa Arson King è a una partita di football e finisce i soldi per la birra. Inquadrato dall’emittente ESPN, mostra un cartello dove chiede aiuto per essere “rifornito”, facendo un versamento sul suo account Venmo. In pochissimo raccoglie più di un milione di dollari, con cui intanto compra una cassa di birra. Poi il resto lo dona all’Ospedale Stead Family dell’Università dell’Iowa. Di fronte a un gesto così bello una marca di birra decide di mettere il nome di King sulle sue lattine. Aaron Calvin, un giornalista, scava nel passato di King e scopre due post sui social a sfondo razzista – pubblicati quando aveva 16 anni – in cui dava del gorilla a una donna nera. Tutti gli sponsor abbandonano Arson. Ma alcuni giornalisti iniziano a guardare i vecchi post di Calvin e trovano messaggi razzisti e omofobici, così il suo giornale decide di licenziarlo.
Cose che accadono solo negli USA dirà qualcuno. Un perfetto esempio di cancel culture, fenomeno recente che si riferisce a ostracizzare, boicottare e mettere al bando un individuo che si ritiene abbia agito (o più spesso parlato) in modo inaccettabile. La sua forma più moderata è la “call-out culture” (cultura del richiamo) dove si dà alla persona una “seconda opportunità”, sempre qualora si mostri consapevole e pentito del suo operato. Secondo la ricercatrice Jillian Jordan dell’Università di Yale, esprimere indignazione è un segnale sociale che dice agli altri: “Io sono una persona migliore di loro”.
Un modo senz’altro meno faticoso di costruire la stessa idea lavorando sodo, attraverso buone azioni e un comportamento moralmente irreprensibile. In altre parole, sembra che sia più facile puntare il dito sugli altri che lavorare su se stessi (non lo dico io, lo dice la scienza). Molte personalità si sono pronunciate contro la cancel culture. Trump la paragona al totalitarismo, perché fa vivere le persone perbene nella paura di sbagliare. Papa Francesco ha sottolineato i rischi di limitare la libertà di espressione.
La cancel culture non risparmia i personaggi storici. Thomas Jefferson aveva degli schiavi nelle sue piantagioni (prima che venisse abolita), Winston Churchill era stato accusato di posizioni razziste di una forte simpatia per Mussolini. Alle volte non basta neppure sconfiggere il nazifascismo per essere perdonati per quello che si è detto in qualche vecchio post. Forse aveva ragione Barack Obama che, parlando di cancel culture, ha detto: “Le persone che fanno cose davvero buone hanno dei difetti”.
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