Puoi pensarla come vuoi, ma ascoltare Fausto Bertinotti è sempre uno stimolo politico e intellettuale. Per la storia di cui è stato tra i protagonisti e per la passione intelligentemente “provocatoria” che lo accompagna ancora. Elencare le cariche apicali in politica, nel sindacato, nelle istituzioni che ha ricoperto toglierebbe solo spazio al suo ragionare su Biden, la guerra e una sinistra che esiste se reinventa un internazionalismo pacifista.

Fuggiasco. Traditore. Dopo il ritiro dall’Afghanistan una bufera si è abbattuta su Joe Biden, dipinto come un mostro di cinismo. Che ne dice?
Il mostro che sta ancora sulla scena, e che su di essa striscia, è la guerra. Io penso davvero che confondere le cause con gli effetti o è un’operazione per salvare la coscienza di chi si è infilato in questa guerra insensata, oltreché criminale, oppure è una incomprensione di fondo del rapporto, che peraltro ha segnato una intera fase del ciclo storico della globalizzazione capitalistica, che caratterizza la spirale guerra-terrorismo-guerra. Io credo che ancora non si siano misurati fino in fondo, anche perché la guerra continua a strisciare, i danni di questa cosa. Per venire ai drammatici eventi dell’oggi, qui non siamo di fronte a una scelta politica dirompente tra la pace e la guerra. Tant’è vero che il predecessore di Biden già si era mosso sulla stessa linea di tendenza, e cioè che questa guerra è diventata insostenibile.

Perché insostenibile?
Questa guerra è figlia di un altro tempo, del tempo in cui i neoconservatori americani erano riusciti a convincere tanta parte dell’Occidente, addirittura della teoria aberrante della guerra preventiva, e in ogni caso quella della guerra permanente come risposta alla minaccia terroristica. Dice giustamente Lucio Caracciolo che fare una guerra al terrorismo, che è una condizione, scambiandola per un Paese o uno Stato, è un’operazione insensata. Ma è figlia di quell’epoca lì. Di un’epoca in cui tanta parte della classe dirigente mondiale, e occidentale in particolare, si era messa su questa strada. L’azione è stata peraltro del tutto inefficace. Tanto più che l’innesto che era stato fatto su questo albero, che è quello della costruzione, è stato quello dell’occupazione di uno Stato. Errore sull’errore, le cui conseguenze si vedono, visto che non ha prodotto alcuna pacificazione. Non ha bonificato il terreno dal fondamentalismo islamista, come quello dei talebani, e ha lasciato sul terreno un conflitto anche tribale, aggravato dai criminali desideri di vendetta che l’occupazione ha alimentato. È difficile pensare che si possa mettere fine a una storia sciagurata continuando a trascinare la sciagura stessa. Se poi vogliamo discutere degli elementi che potevano rendere meno doloroso questo passaggio, questo è sempre possibile e del tutto legittimo. Ma operiamo dei distinguo fondamentali: l’esigenza di mettere fine alla guerra e di uscirne, in primis. Quella di Biden è una scelta necessitata e, aggiungo io, è una scelta che dà ragione dopo vent’anni alle correnti pacifiste che si erano battute non solo contro questa guerra ma contro quella teorizzazione politica di cui parlavo. La gestione di questa scelta, che è in capo a Biden, contiene degli elementi discutibili, criticabili, ma bisognerebbe evitare di prendere lucciole per lanterne. Mi lasci aggiungere che nei confronti di Biden si è riversata una propensione alla critica fino al ludibrio che naturalmente parte da destra, e questo si capisce, ma muove anche nel campo del centrosinistra, nelle aree che si chiamano progressiste in Europa…

Da cosa nascono queste critiche?
Posso sbagliarmi, ma credo davvero che la presenza di Biden costituisca per le classi di governo europee di centrosinistra una spina nel fianco. Perché Biden fa le cose che, sul terreno progressista, loro non fanno. Perché Biden diversamente da loro ha vinto le elezioni e non è stato cooptato in un governo (non è un giudizio di valore ma descrittivo) tecnocratico-oligarchico, in questo in continuità con la tendenza oligarchica che ha impegnato i Paesi europei in questo ultimo quarto di secolo ormai. Biden invece va alle elezioni, ci va contro Trump, quindi in una contrapposizione evidente, acclarata: scegliere A contro B. Rinasce, anche se nella formula americana, lo scontro tra destra e sinistra. Questo scontro diventa palese, visibile, è posseduto da chi vota. È così vero che ottiene il sostegno di una sinistra che osa chiamarsi negli Stati Uniti d’America socialista, come ha fatto Sanders, vince le elezioni e, cosa ancora più spinosa per il centrosinistra europeo, avvia la realizzazione di un programma che ha questo connotato. Diversamente dai governi di centrosinistra in carica in Europa, che muovono su una linea di diversa organizzazione economica, di risposta alla crisi, ma totalmente priva di riforme sociali. Mentre Biden muove in direzione del salario minimo garantito, determina una redistribuzione del reddito in cui denuncia le grandi ricchezze e interviene a ridurre drasticamente la povertà, apre la questione fiscale all’interno, sul tema della progressività, rovesciando quella tendenza che risale fino a Clinton, e, sia pur “adelante con juicio”, apre il capitolo con le grandi major sulla tassazione internazionale. Tutte cose che lo configurano come un elemento di rinascita di una politica che segna una discriminante contro la destra. Ma anche cose che gli europei non possono vantare, e che suscitano in loro la sensazione che Biden sia una presenza ingombrante. Da qui una propensione a muovere una critica su un terreno che peraltro nel centrosinistra ha sostituito il campo dei diritti sociali, anche se incompiutamente…

A cosa si riferisce, presidente?
Alla messa all’ordine del giorno dei diritti civili. Dico incompiutamente, come si vede da tutto il discorso sull’immigrazione, drammaticamente povero da parte delle forze di governo europee, persino in questa vicenda afghana, o come si è visto sul ddl Zan, o come si vede sullo Ius soli. Quand’anche certi principi la cui ispirazione viene considerata e proposta come giusta, questi principi poi non entrano nella scelta di programma. Tuttavia, siccome questo è, sia pur inefficacemente, il campo di vocazione, su questo terreno s’impugna una critica a Biden per le sue scelte “anti diritti” in Afghanistan. Sia chiaro: le azioni devastanti che i talebani al potere compiono contro l’umanità, e in particolare contro le donne, sono innegabili. Ma, insisto, questi problemi drammatici sono esattamente la conseguenza di una guerra fallita.

A sinistra intere generazioni sono cresciute con l’idea di contestare il ruolo degli Usa come i “Gendarmi del mondo”. E ora? Rimpiangiamo ciò che per anni si è contestato?
Bella domanda, davvero. Domanda intelligente a cui i sostenitori della tesi a cui lei fa riferimento, dovrebbero dare risposta. Non ce la si può cavare con un “avevamo ragione ieri, abbiamo ragione oggi”. C’è un “però” grande…

Quale?
A sinistra, parlo di quella in cui nella fase della globalizzazione ho militato, insieme ai movimenti altrimondialisti, l’analisi sugli Usa è cambiata. Naturalmente si può sorridere sulla differenza tra la denuncia del carattere imperialista degli Usa e l’analisi della condizione imperiale degli stessi. Ma una decente cultura politica non può non vedere la grande differenza tra l’una e l’altra. E ancora. In questa seconda fase critica, il movimento altromondista è stato molto più concentrato sulla critica al processo generale, mondiale, di globalizzazione e di ristrutturazione capitalistica che non sul peso dei singoli Stati. Come se questo processo fosse ormai il dominus. Se si pensa il conflitto tra Est ed Ovest, cioè lo scontro tra l’imperialismo americano e la potenza oppressiva sovietica, e i suoi esiti, a prendere il comando più che uno Stato leader è stato un processo economico, sociale, di modello di sviluppo. Non si può non vedere il passaggio. Una evoluzione che prosegue oggi nell’individuare, come caratteristica principale del mondo, l’instabilità. Quindi l’incapacità di tutte le forze in campo di determinare un’uscita dall’instabilità e dalla crisi lungo una qualsiasi linea. La globalizzazione non si ritrae ma si riorganizza per grandi aree: Cina, Stati Uniti etc.. Io le proporrei, però, di assumere di una sinistra tutta, quando era degna di questo nome, ciò che è vissuto dentro di essa, pur senza essere prevalente.

Vale a dire?
Il segmento filo pacifista. Noi abbiamo avuto profeti importanti, da Aldo Capitini, l’ispiratore della Marcia Perugia-Assisi, a padre Balducci. Penso a quella per la mia generazione famosa lettera di Napoleoni, La Valle e Ossicini, al Comitato centrale del Pci, in cui si proponeva precisamente quello della pace come nuovo tema discriminante. La pace come linea di riorganizzazione integrale del mondo. Dirà pure qualcosa, spero di non essere blasfemo, se l’erede di questa tradizione oggi si trova fuori dalla politica e lo si trova nella cattedra della Chiesa cattolica: Papa Francesco. Che muove dalla denuncia della Terza guerra mondiale a pezzi, fino a questa ecologia integrale che si muove precisamente su quel filone che individua nel meccanismo di accumulazione capitalistica in corso, il produttore non solo delle diseguaglianze ma anche della violenza e della guerra. Il ragionamento che io propongo è proprio questo: non devi rispondere alla domanda sto con gli Stati Uniti o con la Cina, con la Russia o con l’Iran. Non stai con nessuno. Non è la canzone delle “anime belle”. È l’idea che il filo della pace, e dunque dei diritti sociali, dei diritti politici dell’umanità, è quello con cui leggere tutti i fenomeni, tutti gli Stati, tutti i regimi, e nei confronti dei quali determinare la tua azione. Me lo faccia dire grossolanamente: ma ci sarà una ragione se gli eredi di Gino Strada possono rimanere in Afghanistan e gli eserciti no? Non stiamo parlando di giudizi morali. ma di politica: uno resta sul campo, quindi è suscettibile di poter ancora operare, gli altri escono dal campo, e devono semplicemente tentare di discutere se attraverso il dialogo o no. Discussione peraltro ridicola…

Ridicola?
Assolutamente sì. Perché come si sa si tratta con tutti. Questo schermo ipocrita secondo cui c’è qualcuno con cui non si tratta, dura al massimo una settimana, poi tutti trattano con tutti. Gli Stati Uniti d’America nella fase del loro espansionismo sono stati maestri nel considerare governi amici anche i più crudeli avversari dell’umanità.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.