Giorgia Meloni è piuttosto nervosa: il non brillante risultato delle elezioni amministrative, più l’accordo sulle nomine europee fatto nella “logica dei caminetti” (parole sue), cioè mettendola da parte, bruciano non poco. L’intervento di ieri alla Camera è stato molto duro, così come il video contro “la sinistra”. La nostra premier non ha tutti i torti, quando afferma che non si può far finta di niente e ignorare lo spostamento a destra del voto europeo; allo stesso tempo, tuttavia, nessuno può negare che la maggioranza del Parlamento europeo è ancora chiaramente in mano ai tre gruppi tradizionali: Popolari, Socialisti e Liberali. La posizione della Meloni è obiettivamente una posizione incerta e ambigua: non a caso con felice metafora Prodi l’ha definita ambidestra.

Le due destre europee

In Europa ci sono due destre: i conservatori, dei quali lei è presidente, e il gruppo di estrema destra, Identità e democrazia, che è quello di Salvini. Dopo le elezioni, poi, nuove aggregazioni o disgregazioni, sempre a destra, si annunciano. È chiaro che questo sarebbe il momento di una svolta storica: Meloni potrebbe trasformare il suo partito in un partito conservatore europeo, capace di rappresentare una alleanza credibile per il centro, e nello stesso tempo un argine verso la destra più destra, che l’Europa giustamente teme. Ed è altrettanto chiaro che lei ci pensa, ha voglia di farlo, ma nello stesso tempo esita, forse temendo di perdere i consensi più tradizionali del suo partito. Proprio su questo crinale la nostra Giorgia si giocherà il suo ruolo di possibile innovatrice. Se continuerà a esitare, sfogando le sue incertezze nelle aggressioni verbali, passerà alla storia come prima donna premier, certo, ma difficilmente altro.

Una nuova forza europea

Se avrà il coraggio di portare i suoi sulle sponde del conservatorismo di destra sì, ma liberale, democratico, attento ai diritti umani e ai problemi sociali del paese, potrà essere davvero una forza europea oltre che italiana. Ma se continuerà ad accusare l’opposizione di toni da guerra civile, a traccheggiare sui rigurgiti nostalgici che affiorano qua e là dalle sue parti, se non abbandonerà i toni vittimisti, perderà una grande occasione, mostrando i limiti culturali della sua formazione e del suo partito. Perché sì, c’è una questione culturale. Quelli tra i suoi che parlano di egemonia culturale hanno ragione: ma non si può pensare che questa consista nella guida delle reti Rai. L’egemonia culturale, se così vogliamo chiamarla, si conquista guardando avanti al futuro, e insieme indietro, alla storia; dialogando con le élites e con i ceti subalterni; costruendo reti di relazioni con tutto ciò che si muove nella società, anche i non fedeli, i diversi da noi. Così la sinistra ha costruito quell’influenza che, anche se parecchio ammaccata, ancora le permette – nonostante tanti errori e tanti rovesci – di rappresentare un punto di aggregazione politica ineludibile. E anche la sinistra, se vuole ricostruire un percorso credibile, dovrà ripartire da qui, e non limitarsi a chiamare a raccolta per battere la destra.