Il golpe in Niger mette a dura prova non solo il Paese ma anche tutta la regione, con onde d’urto che si propagano fino all’Europa. La destituzione del presidente Mohamed Bazoum da parte del capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, è infatti solo l’ultimo campanello d’allarme. L’intera fascia del Sahel, che collega il cuore dell’Africa alle coste mediterranee, rischia di essere segnata da un continuo stato di instabilità e di caos.
Elementi, questi ultimi, che si saldano alle già precarie condizioni economiche e sociali della regione e che rischiano di trasformarla in una “bomba a orologeria” di crisi sistemiche, conflitti, esodi e conseguenti affari per organizzazioni terroristiche e criminali. L’allarme, per quanto riguarda il Niger, è infine ulteriormente amplificato per ragioni strategiche di ordine regionale e internazionale.
I governi dei Paesi limitrofi, quelli che fanno parte della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, si sono messi subito in stato d’allerta. Il pericolo di un contagio terrorizza soprattutto la Nigeria, potenza locale nella cui capitale, Abuja, ha sede anche il blocco regionale occidentale africano. Nell’ultima riunione di Ecowas (o Cedeao a seconda di quale lingua si preferisca per l’acronimo) si è paventata anche l’ipotesi di un intervento militare per ristabilire l’ordine e il governo di Bazoum, unico leader riconosciuto dalla comunità internazionale e democraticamente eletto dopo una regolare elezione.
Al momento da Abuja i leader della Comunità riuniti nel summit d’emergenza sul caos in Niger hanno disposto sanzioni immediate e l’isolamento del Paese a livello economico e logistico. Ecowas ha dato ai golpisti sette giorni (l’Unione africana aveva preferito darne 15).
“Nel caso in cui le richieste dell’Autorità non vengano soddisfatte entro una settimana” – si legge nella nota pubblicata ieri – saranno adottate “tutte le misure necessarie per ripristinare l’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger. Tali misure possono includere l’uso della forza”. Non si tratterebbe di una prima assoluta: già all’inizio del 2017 alcuni Stati appartenenti alla Comunità intervennero in Gambia in quella che è passata alla storia come l’operazione “Restore Democracy”.
In quel caso, tuttavia, la situazione appariva meno complessa. E questo non solo per le differenze geografiche e politiche del Gambia rispetto al Niger, ma anche per il contesto regionale e internazionale rispetto a sei anni fa. Per capirlo possono essere utili due elementi. Il primo è un’immagine: quella dell’assalto all’ambasciata francese nella capitale del Niger, Niamey. Migliaia di persone a favore del golpe contro Bazoum hanno circondato l’ambasciata transalpina e alcuni manifestanti hanno provato ad assaltare gli uffici al grido di “Viva Putin” mentre in strada spuntavano delle bandiere russe.
Non è una novità nel panorama africano, e in particolare in quella regione. Scene simili sono state viste anche in Mali, in Burkina Faso e in Sudan, tutti Paesi che hanno di recente messo alla porta le truppe occidentali a favore di alleanze con altri attori internazionali. Questi fatti vanno uniti inoltre alla presenza nella Repubblica centrafricana della Wagner, il cui capo – Evgenij Prigozhin – ha espresso supporto alla causa golpista. Scelta da cui il Cremlino ha preso le distanze, con Dmitry Peskov che ha ribadito il sostegno della Russia al solo governo legittimo. Tuttavia ciò non esclude che Mosca – e più a latere Pechino – possa sfruttare il caos provocato dal golpe, a maggior ragione perché a essere destabilizzato è l’ultimo avamposto occidentale in Sahel, con missioni militari, tra cui quella italiana, e accordi anche economici con diversi Stati dell’Unione europea.
Uno su tutti la Francia, che vive giorni di angoscia dal momento che la possibile installazione del nuovo regime in Niger rischia di avere pesanti ripercussioni sulla propria agenda, non solo regionale. Dopo il ritiro da Mali e Burkina Faso, il Niger rappresentava per i francesi il laboratorio di un nuovo modo di approcciarsi all’Africa. Inoltre, quello che preme a Parigi è soprattutto l’uranio estratto nello Stato africano: metà del quale alimenta i reattori francesi. Non a caso – e questo è il secondo elemento su cui riflettere – uno dei primi atti dei golpisti è stato il divieto di esportazione di oro e uranio verso la Francia. E sono ben pochi i Paesi con cui si può sostituire senza colpo ferire l’uranio nigerino.