Si fa un gran discutere di ministri tecnici. Certo l’intera vita della Seconda Repubblica, sorta dal crollo del muro di Berlino e dalle ceneri di Mani pulite, è stata costellata dal ricorso a tecnici in posizioni apicali (Ciampi, Dini, Monti) o comunque di primo rilievo nelle compagini governative. Le ragioni sono varie e attingono tutte al sostanziale riconoscimento da parte della politica dell’impossibilità di annoverare tra le proprie file personalità capaci di affrontare problematiche ormai complesse, in primo luogo sul versante economico, ma non solo.

Il primo vero cedimento dei partiti e dei movimenti sul versante della credibilità e dell’autorevolezza si misura proprio su questo crinale. L’ammissione che solo fuori dalle mura dei partiti e dei movimenti si possano selezionare i principali protagonisti delle compagini di governo equivale a riconoscere che la politica, da sola, non è in grado da sola di reggere le sorti di una nazione sviluppata e complessa e questo cedimento si può misurare sia verso l’estero (l’Unione europea e gli alleati) che verso la pubblica opinione nazionale. La convinzione, al giungere dei ricorrenti stati d’emergenza (Ciampi, Monti e Draghi), che la politica debba indietreggiare per lasciar posto a eminenti figure di esperti giustifica di per sé la crisi della democrazia rappresentativa.

In nessun altro paese occidentale, come in Italia, i partiti recedono così velocemente dall’idea di poter o saper governare lo stato d’eccezione imposto dalle crisi. Supinamente accettano il suggerimento che sia meglio fare un passo indietro, abdicare alla guida in prima persona del paese e occuparsi, piuttosto, del piccolo cabotaggio delle nomine e del sottogoverno lasciando ai “duri” il compito di portare in salvo la nazione. Par chiaro che due governi emergenziali in meno di dieci anni (Monti e Draghi) e il costituirsi di maggioranze ibride abbiano logorato il prestigio e l’autorevolezza della politica in Italia che si è, praticamente da sola, costruita il ruolo di guardiano del tempio delle vacche grasse, lasciando a quelli bravi e capaci il compito di occuparsi del tempio delle vacche magre. Con un duplice risultato.

Una progressiva e inesorabile disaffezione degli elettori alle tornate di voto, con un astensionismo crescente. La difficoltà di contenere le corporazioni e gli interessi meglio agglutinati che, a fronte di un politica fragile, manifestano l’intera loro capacità di resilienza e di resistenza verso ogni cambiamento. La prossima stagione di governo appare, in queste ore, fortemente condizionata dalla necessità di concedere spazio (ancora una volta) a tecnici in posti-chiave dalla macchina statale con lo scopo di tranquillizzare gli osservatori internazionali e la popolazione fortemente preoccupata dalla condizione economica. Un governo a forte trazione tecnica all’inizio della legislatura offrirebbe, tuttavia, il segnale di un ulteriore e, se si vuole, più grave arretramento delle forze politiche nel proprio ruolo di leadership della nazione.

Il paese necessita, a tutta evidenza, di strappi e di colpi d’accetta su ogni versante (istituzionale, fiscale, sociale, economico) e i tempi cupi che si intravedono nel futuro prossimo impongono scelte anche drammatiche che solo la politica è legittimata a compiere. I tecnici, per loro vocazione, guardano ai risultati e non ai processi di consenso che li giustificano e li rendono condivisi dalla pubblica opinione. Già sul versante della giustizia si intravedono le prime precisazioni e le prime cautele. Quando si afferma che occorre innanzitutto puntare all’efficienza dei processi civili e penali per poi, dopo, guardare alle questioni istituzionali e ordinamentali, si dice una cosa solo in apparenza corretta. Nessuna riforma del processo, nessun aggiustamento sul versante delle risorse sarà in grado di porre serio rimedio alla deriva carrieristica e correntizia della magistratura italiana.

Prima si costruisce la casa e solo dopo la si arreda e la si munisce di ascensori e di ogni comfort che la renda piacevole. Il ministero della Giustizia, quasi paradossalmente, rappresenta la più importante casella del nuovo ordito governativo. Molte riforme sul versante giudiziario sono puramente istituzionali e normative (Csm, ruolo del pubblico ministero, separazione delle carriere, nomine dei dirigenti) e non esigono alcuna risorsa aggiuntiva. In altre parole: contrariamente a molti altri settori in cui le riforme impongono costi notevoli (si pensi solo alla flat tax o alla scuola o alle pensioni), la giustizia ha necessità di interventi praticamente a costo zero. Solo dopo averli messi in cantiere questi rimedi ha senso riorientare le cospicue risorse del Pnrr (che rischiano di essere sprecate come molti sanno, ma omettono di dire) e rimodellare il processo civile e penale.

Costruire autostrade percorse da pirati della strada che nessuno sanziona o da stantii calessi che nessuno sprona non è un buon modo di procedere e se la scelta deve cadere su un tecnico per questa casella è bene – certo – che abbia tutti i requisiti di capacità, di imparzialità, di neutralità che questo compito impone, ma è indispensabile che abbia anche una chiara visione politica dei problemi su campo, così restituendo alla politica un prestigio andato smarrito in anni di sterili polemiche e di ininterrotte sconfitte.