Vladimir Putin da un anno non somiglia più allo stereotipo gelido e inflessibile della sua immagine. Diversamente dalla maggior parte degli autocrati non ha mai dato violenti segni di nervosismo, salvo quando umiliò in diretta televisiva un impacciato responsabile dei servizi segreti che non aveva saputo dirgli quale fosse la vera situazione dell’Ucraina ormai invasa. Lo abbiamo visto fare con Evgeni Prigozhin una faccia abbastanza feroce, ma non poi così feroce. Tanto che ancora oggi molti si chiedono quale fosse il vero scopo di quell’ardita passeggiata in armi fin quasi alle porte di Mosca.

Ma Putin è cambiato: la sua voce calma e perentoria, il suo body language militare ed asimmetrico diventa umano, la convinzione che mette nelle parole e che non sembra più assoluta. Chi segue su YouTube i suoi discorsi, magari sottotitolati in inglese, troverà centinaia di conferenze e incontri con scolaresche, diplomatici, militari, turisti, artisti, ai quali ha sempre parlato a bassa voce. Non enfatico, raramente di tono minaccioso se non quando accenna all’impiego di bombe atomiche tattiche, più distruttive di quelle americane contro Hiroshima e Nagasaki. La sua stessa voce negli ultimi mesi è andata macerandosi almeno nel tono, con qualche effetto bizzarro. A una signora che gli chiedeva che cosa potesse succedere se si fosse passati alle armi atomiche, rispose: «Alla peggio, andremo tutti in paradiso».

Putin, durante e dopo lo strano colpo di Stato del suo ex cuoco Evgeni Prigozhin, sembra più riflessivo. Ha raccontato due giorni fa mostrando molte pagine stampate che russi e ucraini avevano già firmato la pace ad Ankara quando poi gli uomini di Kiev hanno mandato tutto all’aria. Ha ammesso di aver iniziato una guerra per cui non aveva i mezzi: «Ce li procureremo, ma ci vorrà un po’ di tempo. Abbiamo fatto proposta di pace regolarmente respinte dal presidente ucraino aizzato dai polacchi e dalle repubbliche Baltiche». In due giorni Vladimir Putin ha raccontato sul primo canale della televisione russa di aver trattato con gli ucraini che poi si sarebbero tirati indietro, di non avere armi adeguate a questa guerra, di sperare che la guerra si risolva se gli ucraini si decideranno a farlo.

Non una parola, tuttavia, sullo sgombero dell’Ucraina occupata. Questo mutato comportamento ha un risvolto: il presidente indiano Modi (accolto trionfalmente alla Casa Bianca) ha detto che il suo Paese è stanco e preoccupato della guerra di Putin. Ma più drastico di tutti è stato il diplomatico speciale cinese in visita al Cremlino con un sorriso scintillante, il quale ha spiegato a Putin che la Cina non ha alcuna intenzione di farsi trascinare in una guerra russa.

Finché si tratta di manifestare il totale sostegno ideale – ha spiegato – morale e ideologico, e per tutte le iniziative di pace per cui sia utile raggruppare sia i Brics che il gruppo di Samarcanda per metter fine alla guerra in Ucraina siamo prontissimi a lavorare insieme. Ma va fatto subito perché questo conflitto aumenta la tensione tra Stati Uniti e Cina le cui relazioni sono al loro punto più basso, che tuttavia hanno bisogno l’una dell’altra per evitare un conflitto militare per Taiwan. I cinesi all’inizio dell’invasione dell’Ucraina avevano deciso di stare a guardare per un po’ prima di decidere che posizione prendere. Oggi i cinesi non se la sentono affrontare insieme ad una crisi economica, una rischiosissima avventura militare come quella per conquistare Taiwan. Putin tutto questo lo sa e ha dato proprio con segnali anche con il linguaggio del corpo.

E lo sanno anche alla Casa Bianca dove Joe Biden ha deciso di festeggiare il governo svedese assicurandolo che il blocco nord della NATO spera nella pace ma è pronto ad affrontare guerra. È vero che la Svezia non ha ancora risolto i suoi problemi con la Turchia, che si oppone al suo ingresso formale a causa del sostegno concesso dagli svedesi ai profughi curdi, ma la diplomazia americana – in questo momento – sta andando poco per il sottile.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.