Ieri Giuseppe Conte, durante il question time del ministro della Difesa Guido Crosetto, ha posto la questione legittima del coinvolgimento dell’Italia in una escalation militare che potrebbe prolungare la guerra per anni, mettendo a rischio anche la sicurezza del nostro Paese. Ma sentendo il suo discorso, soprattutto nella replica, si sono potute scorgere alcune crepe in un ragionamento che più che pacifista sembra strumentale.

Rivolgendosi al ministro ha detto: «È nota la sua storia personale e professionale, costellata da tanta passione, da tanto entusiasmo per quanto riguarda il comparto degli investimenti militari. Mi permetta un suggerimento: non deve pensare che anche gli italiani abbiano la pari passione e il pari entusiasmo per gli armamenti militari. Gli italiani vogliono investimenti nella sanità e nelle scuole, per i mutui». Per il leader dei Cinque stelle il problema dell’invio delle armi non è una questione che va posta a prescindere perché è contro l’articolo 11 della Costituzione o perché rischia di trasformare il mondo in una polveriera.

Lo ha scritto benissimo sul Riformista Alberto Cisterna: i tank russi contro i tank tedeschi non si vedevano dalla seconda guerra mondiale. Un’immagine che pensavamo di non dover più scorgere e che fa presagire il peggio, soprattutto per quell’Europa oggi messa ai margini. Il problema non sono i costi. Non si può contrapporre un principio a un altro: la pace alla salute; la sicurezza a un reddito garantito. Anche se le armi non costassero nulla o anche se costassero molto, la decisione è politica. Una politica che oggi latita, rinunciando totalmente a svolgere un’azione diplomatica degna di questo nome. Conte sa che il tema del no alla guerra – diverso dal sì alla pace – è uno dei pochi spazi di consenso che gli ha lasciato il nuovo Pd di Elly Schein e fa di tutto per usarlo.

Messo in un angolo su temi come i diritti civili e il salario minimo, si gioca questa carta. Paradossalmente è proprio nel Pd di Schlein che è principalmente insita quella cultura pacifista che arriva da Genova 2001 e che in questi anni è rimasta viva attraverso i diversi movimenti sociali. La nuova segretaria non cambia la posizione stabilita dal suo predecessore anche per non rompere con l’ala riformista dei dem. Ma senza creare divisioni, una discussione seria sarebbe importante iniziarla anche nel Pd. La paura di una escalation è reale.

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