La riflessione dopo la morte di Cutolo
Il paradosso di uno Stato contro la tortura che usa il carcere duro per estorcere collaborazioni
Ciò nonostante quanto riferito dalla moglie e dalla figlia del detenuto che, in una delle poche occasioni d’incontro concesse, avevano constatato come il loro congiunto non fosse in grado di alzare gli occhi, di portare un bicchiere d’acqua alla bocca, di parlare e comunque di interagire. Stato comatoso confermato anche dal suo difensore che descriveva una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere. All’epoca, Cutolo assumeva quindici pillole al giorno, straziato dal diabete, dalla prostatite, dall’artrite ed era fortemente ipovedente.
Eppure quella piccolissima parte della riforma dell’Ordinamento Penitenziario divenuta legge aveva ribadito che «i detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia» e aggiunto che «possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia». Le “ragioni di opportunità” evidentemente furono ritenute prevalenti sul principio costituzionale del diritto alla salute e sulle norme dell’Ordinamento Penitenziario. Non sembrò “opportuno” che un ottantenne, capo di un’associazione criminale che non esiste più da almeno 40 anni, detenuto da 57 anni, potesse avere le cure di un medico di fiducia. Egli doveva attendere che la vendetta giungesse a termine. Oggi il nemico è morto e alla Questura di Napoli è stato affidato il compito di organizzarne il trasferimento da Parma a Ottaviano e la sepoltura.
Non vi è dubbio che Raffaele Cutolo sia effettivamente stato un “nemico”, un colpevole di efferati delitti, un uomo che ha voluto la morte di altri uomini, ma dobbiamo continuare a interrogarci su quale sia la strada maestra per avversare tali condotte criminali e, soprattutto, se quella intrapresa sia la migliore e conforme a giustizia. Su questo tema, più volte l’Unione Camere Penali Italiane è intervenuta per denunciare l’illegittimità della detenzione speciale prevista dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario nel giugno del 1992. Una norma di carattere emergenziale, divenuta poi definitiva e quindi a pieno regime, introdotto nel 2002.
Circostanza che conferma, ancora una volta, che nel nostro Paese ciò che è provvisorio diventa definitivo e che non si è in grado di affrontare concretamente un’emergenza destinata a essere cronica. Dal 1992, cioè da circa trent’anni, siamo quindi in perenne allarme. Ma qual era, all’epoca, l’emergenza? Il 23 maggio 1992 vi era stata la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e di altre quattro persone. Il Governo pensò di affrontare la gravità della situazione con il carcere duro, per dare il segnale di uno Stato forte. Ma dopo poco più di un mese dal decreto legge, il 19 luglio 1992, il dramma si replicò con la strage di Via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e altre cinque persone.
Quanto accaduto dimostra, senza possibilità di smentita, che la scelta politica non fu delle migliori e che non era – e non è – la strada da intraprendere. Il 41 bis prevede che, quando ricorrono gravi motivi di ordine o di sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia possa sospendere il trattamento rieducativo nei confronti di alcuni detenuti. Tale sospensione dovrebbe avere lo scopo d’impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza. Quanto accaduto dall’entrata in vigore della norma, fa comprendere che la scelta – oltre a essere a nostro avviso illegittima – non paga e che sarebbe meglio, invece, intensificare l’opera di risocializzazione verso queste persone, intervenendo anche all’esterno sul tessuto sociale di appartenenza.
Oggi i detenuti che scontano la pena in regime previsto dall’articolo 41 bis sono ben 700. Certamente non sono tutti capi di cosche criminali. La maggior parte sono gregari a cui la vita – e dunque lo Stato – non ha offerto alternative e continua a non offrirne, impedendo anche quel trattamento previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Ma la detenzione speciale non è solo sospensione del trattamento. Nella pratica va molto oltre quello che prevede la norma e si concretizza nel termine usato di “carcere duro”. “Duro” perché si è reclusi in istituti o sezioni speciali, sorvegliati da personale specializzato della polizia penitenziaria. Si ha diritto a un solo colloquio al mese, video controllati e registrati, in locali in cui non è possibile alcun contatto.
Se non si fa il colloquio, una telefonata al mese di dieci minuti, registrata. Limitazione dei beni e del danaro ricevuto dall’esterno. Censura della corrispondenza. Massimo due ore di aria al giorno con non più di quattro persone. È, di fatto, una detenzione che mira all’annientamento della personalità dell’uomo, in nome di una ragione ufficiale d’impedire i contatti con l’esterno. Ma vi è anche un altro scopo, denunciato più volte dall’Unione Camere Penali Italiane e detto a “bassa voce” da altri, quello investigativo. La collaborazione alle indagini può far venire meno lo stato di detenzione speciale. A fronte di tale unica via d’uscita, per ragioni di sopravvivenza, chi non ha nulla da offrire al suo carnefice, deve recitare un fantasioso copione, con le devastanti conseguenze giudiziarie per altri soggetti spesso innocenti.
Vi è poi l’interpretazione restrittiva della norma, nella sua applicazione concreta. Si potrebbero citare un’infinità di casi. Basti per tutti quanto accaduto il mese scorso. È stato vietato ad un recluso al 41 bis l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia. Le ragioni: possibile aumento del suo carisma criminale. Ci si chiede, pertanto, come abbia fatto Raffaele Cutolo a sopravvivere a 34 anni e 2 mesi in regime di 41 bis e se della sua detenzione lo Stato – quello di diritto, che ha abolito la pena di morte e introdotto, seppur recentemente, il delitto di tortura – debba essere fiero.
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