“Riformismo o Barbarie”. Ritorna di attualità l’espressione di Rosa Luxemburg. Proprio di questi tempi malvagi, in cui ogni giorno ne succede una e – va da sé – per le forze democratiche non è un bel momento, quantunque non si arrendano e non si pieghino alle destre e alle democrature. Se sono all’opposizione come la “talpa” di Carlo Marx scava in profondità, in attesa della sconfitta delle destre e dei regimi illiberali. Sta scavando in Ungheria e in India e prima ancora la “talpa” vinse in Polonia e di sicuro ha scavato bene per far vincere il Labour Party di Keir Starmer di conio riformista-blairista nel Regno Unito.

Intanto nel mondo c’è una deriva di destra contro cui bisogna battersi: Francia docet. Il blocco Repubblicano, con tutte le sue contraddizioni (ma Parigi val bene una messa), è contro Rassemblement National: erede del governo di Vichy di Philippe Petain. Un Quisling messo lì da Hitler. Diciamo questo per far capire di che farina è la pasta di RN. Brutto segno. Seppur con le dovute differenze, in Europa e in Italia – a cavallo tra gli anni Venti e Trenta – soffiava il vento rivoluzionario bolscevico e le forze della reazione (fascismo e nazionalsocialismo) compresero la debolezza e il carattere velleitario, lo sconfissero e conquistarono il potere. Le forze liberali furono impotenti, la sinistra fu divisa: da un lato i socialdemocratici riformisti, portati a non distruggere la democrazia liberale bensì ad allargarla a favore delle masse lavoratrici; dall’altro i comunisti tesi a “fare come in Russia”. Avevano ragione i riformisti ma fu una vox clamantis in deserto.

Successivamente i riformisti non ebbero vita facile e furono sempre minoritari per la presenza del più grande Partito comunista dell’Occidente. Eppure storicamente hanno avuto ragione, ma non gliel’hanno mai riconosciuto. I socialdemocratici-riformisti di Giuseppe Saragat, con la scissione dal Psi di Palazzo Barberini, alle elezioni del 1948, fecero perdere il Fronte popolare di Togliatti e Nenni. Di fatto salvando l’Italia dalla guerra civile, dato che l’Italia – per il Patto di Yalta – era assegnata all’Occidente e non all’Oriente. A ragion veduta, Federico Caffè scrisse sul Manifesto:La solitudine di un riformista”. Il professore si sentiva nell’ambito della sinistra, in cui dominava il comunismo, una sorta di corpo “anomalo”. Mutatis mutandis, la situazione non è cambiata oggidì. Tant’è che alla guida del governo c’è Giorgia Meloni, per colpa di un centrosinistra senza un’anima riformista. Non è che nei decenni passati il riformismo sguazzasse.

Anzi, quel poco che l’Ulivo produsse fu di stigma tecnocratica, mentre il centrosinistra lo fece calare dall’alto al contrario del riformismo declinato con il consenso. Per intenderci: quel riformismo della scala mobile del presidente Craxi cui si oppose Berlinguer che indisse il referendum, da cui Pci e Cgil uscirono sconfitti. Nell’Italia dei paradossi abbiamo avuto i vinti della storia a governare. Personaggi con pedigree privi di politica sono stati eletti presidenti del Consiglio e movimenti senza cultura politica hanno governato. Insomma, Italia laboratorio politico di populismo soft e hard e sovranismo ad abundantiam. Il deficit di riformismo ha fatto nascere questi movimenti non riscontrabili in altri paesi europei e, ironia della vita politica, hanno governato non lasciando una bella storia di cui vantarsi. Il governo Meloni è in mezzo al guado, con una maggioranza che agisce sopra le righe e senza rispettare la dialettica con la minoranza parlamentare. Come se giocasse ad asso pigliatutto. Da quello che si sta vedendo, non c’è cultura riformista delle riforme istituzionali.

Calenda da una parte e Renzi dall’altra – poi coppia di fatto per poco tempo – hanno tentato di cavalcare l’onda riformista con insuccesso per via delle loro leadership personali e dualistiche. L’uno e l’altro (inconciliabili tra loro) lasciano un elettorato riformista allo sbando, più portato all’astensione dal voto. E siamo alla Bartali: “L’è tutto sbagliato. L’è tutto da rifare”. Che fare? Alla Schlein meglio non parlare di riformismo, presa com’è di politiche woke, folks politics e al rimorchio di Landini; per Conte il riformismo, dentro i 5S, sarebbe una bestemmia in chiesa. Quel che resta del socialismo italiano, il cui riformismo sta nel suo DNA, si facesse vivo e battesse un colpo. Di Calenda abbiamo detto abbastanza, però non tutto: si sta posizionando sul Partito democratico. Renzi farebbe bene a seguire il consiglio del direttore Claudio Velardi: togliesse il disturbo da segretario di Italia Viva e lasciasse che si costituisca una classe dirigente autonoma dalla sua ingombrate presenza. La cosa curiosa è che c’è tanta domanda di riformismo gradualista, di cui abbiamo appreso il valore leggendo i tanti libri dedicati a Giacomo Matteotti, ma non c’è alcuno che ne prenda coscienza e l’eredità. A ben pensarci, il riformismo non ha mai avuto una sorta di egemonia per la presenza vuoi del comunismo ieri, vuoi per il populismo e il sovranismo oggi. Il passato non passa. Come ai tempi della Luxemburg: “Riformismo o Barbarie”.