La Corte internazionale di Giustizia
Il “parere” della Corte e il repulisti degli ebrei: un vicinato per cui la fine dell’occupazione passa dall’annientamento di Israele
Il 19 Luglio scorso la Corte Internazionale di Giustizia – ritenendo di dover intervenire in argomento, e nonostante il grappolo di sodi argomenti che lo sconsigliava – ha emesso il “parere” secondo cui deve cessare con urgenza la presenza israeliana nei cosiddetti “territori occupati, inclusa Gerusalemme Est”, con evacuazione di “tutti” i coloni e con obbligo degli Stati membri e della stessa Onu di boicottare ogni iniziativa che comporti “aiuto o assistenza” nel mantenimento della situazione di occupazione. I più ragionevoli e decenti tra gli Stati che, nei mesi scorsi, depositavano opinioni scritte in vista del “parere” che la Corte – presieduta da Nawaf Salam, un nemico dichiarato di Israele – era chiamata a rendere, cautamente segnalavano che quel collegio (com’era in suo potere) meglio avrebbe fatto a declinare.
Il responso della Corte, infatti, avrebbe inevitabilmente assunto le fattezze di una condanna, pregiudicando seriamente, e forse definitivamente, l’unica realistica possibilità di una soluzione del conflitto: vale a dire una soluzione concordata tra le parti. Proprio per questo motivo, dunque, i più avveduti (i meno accecati, verrebbe da dire) avevano piuttosto invitato la Corte, se non proprio a declinare l’incarico, almeno ad adempiervi sollecitando le parti anche energicamente affinché intervenissero sulla matassa inestricabile e avvelenata arrendendosi alla necessità di reciproche concessioni.
Macché. I coloni son tutti uguali, per la Corte, e bisogna farne repulisti senza distinzione. Il fondamentalista che spara contro i contadini arabo-palestinesi condivide una colpa analoga a quella dell’ebreo palestinese che, lì da decenni, coltiva l’orto con un sistema di irrigazione inammissibilmente capitalistico a fronte della zappa con cui è costretto a lavorare, ovviamente per colpa di Israele, l’omologo arabo. E siccome per la Corte un posto vale l’altro, ecco l’obbligo di evacuazione degli ebrei non da una spiaggia o da qualche lotto desertico, ma – vedi il realismo della giustizia che si fa vigile urbano bi-millenario – dalla Città Vecchia di Gerusalemme.
Rispondere alle pretese di insediamento biblico di certi fondamentalisti israeliani con “pareri” come quello emesso la settimana scorsa dalla Corte Internazionale di Giustizia significa non comprendere, specie dopo il 7 ottobre, che la presenza israeliana nei cosiddetti Territori Occupati ha anche, ma non solo, la faccia dell’illegalità e dell’usurpazione: ha anche quella della realtà. La realtà di un vicinato per il quale la fine dell’occupazione non passa dal ritiro, ma dall’annientamento di Israele.
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