Meglio chiudere in fretta che altrimenti qui ogni giorno ne spunta fuori una. E non perché lavoriamo poco, come dice l’amico Crosetto (Ministro della Difesa, ndr) ma perché il governo forse non lavora così bene”. Piano nobile di Montecitorio, ieri poco prima delle 15, i capigruppo lasciano la Biblioteca del Presidente dove hanno appena concluso la riunione che ha deciso lo stop dei lavori venerdì 4 agosto.

Tutti a casa, buone vacanze, se ne riparla il 10 settembre. L’“amico” di Crosetto gioca nel recinto della maggioranza e spiega che “faremo il rush finale con la delega fiscale ancora al Senato ma noi ce la leviamo in un giorno. Seduta lunga domani e poi arrivederci a settembre”.

E sarà, come si diceva una volta, un autunno caldo, nel senso di complicato, tra dossier nuovi e vecchi che andranno tutti risolti. In un modo o nell’altro. Il governo Meloni è e resta stabile. Anche per assenza di una vera alternativa. Ma è iniziata una fase di stress destinato, anche causa campagna elettorale elezioni europee, ad aumentare le tensioni interne alla maggioranza, quelle con gli enti locali, sindaci e presidenti di regione, e quelle sociali.

Nessuno qui incita la piazza ma è chiaro che le famiglie rimaste senza reddito e dirottate (forse) verso corsi di formazione per ipotetici impieghi, non resteranno silenti. Anche perché tutti faranno campagna elettorale: i 5 Stelle che hanno nel reddito la loro prima e forse unica arma di consenso e il Pd di Elly Schlein che non può rischiare di restare a mani vuote in temi cruciali come lavoro e povertà. O una proroga al reddito o il salario minimo, qualcosa il Nazareno dovrà pure intestarselo.

Possiamo immaginare che sui “Quaderni di Giorgia” – il format social sugli appunti di lavoro della premier che però non ha più avuto seguito – il Presidente del consiglio stia mettendo in fila la lunga e tribolata lista dei compiti per le vacanze in vista degli esami di autunno: reddito di cittadinanza; il rebus Pnrr – e speriamo che in queste settimane arrivino in cassa i 35 miliardi delle rate del 2023 – con sindaci e presidenti di regioni che hanno scritto a Meloni avvisando che così non va; il caro prezzi con la benzina che continua a salire; la crescita che si è fermata (+0,6, lontano il 1,1 stimato) e la legge di bilancio che rischia di avere a disposizione meno soldi del previsto mentre le promesse della maggioranza valgono da sole tra i 30 e i 40 miliardi. E poi la giustizia, ieri è stata incardinata la riforma al Senato, la Concorrenza con i suoi dossier più spinosi come taxi e balneari.

C’era una parentesi rosa nell’agenda del premier, la politica estera, grazie al ruolo di “alleata affidabile capace di una leadership solida” che le ha cucito addosso Joe Biden. Ma adesso tra il golpe in Niger, crocevia di dinamiche che interessano Russia, Cina ed Europa, gli Stati Uniti che stanno per iniziare la campagna elettorale con Trump a processo per cospirazione e l’agenzia di rating Fitch’s che ha abbassato la stima sul debito Usa, la Spagna in cerca di una maggioranza, Olanda al voto in autunno e l’Europa a giugno il tutto sullo sfondo della guerra in Ucraina, anche la politica estera non è più una comfort zone per Giorgia Meloni.

Sul Reddito di cittadinanza ieri la ministra Calderone, nel question time alla Camera, ha fatto quello che poteva e doveva: ha rassicurato che “nessuno resterà indietro e che il governo è pronto a mettere sotto tutela altri fragili”; ha rassicurato che “dal giorno 27 luglio sul sito del ministero ci sono le istruzioni sul da farsi per attivare i servizi sociali dei comuni ed iscriversi alla piattaforma che incrocerà domanda e offerta”. Ha anche detto che “in questi anni sono stati spesi 25 miliardi per le politiche sul lavoro che però non hanno sortito alcun effetto”. Quindi non c’era altro da fare se non l’abolizione del Reddito. Alle opposizioni non basta, ai sindacati neppure, contestano metodo (l’ormai famoso sms) e metodo (“gli ormai ex percettori del reddito non sanno cosa fare”). Il risultato è che le sedi dei comuni e gli sportelli dell’Inps sono presi d’assalto come se da lì potesse arrivare una soluzione.

Il Parlamento chiude. I problemi restano. Il Pnrr, ad esempio. Il ministro Fitto era convinto di aver spiegato tutto nella maratona di martedì tra Camera e Senato. Ma così non è se i sindaci, di destra e di sinistra, lo accusano di togliere soldi (veri, quelli del Pnrr) a cantieri già avviati e che sono destinati a non avere più la necessaria copertura. Fioccano esempi dal nord al sud di opere iniziate e che adesso risultano tra i 16 miliardi definanziati. Così non è se i presidenti di regioni, di destra e di sinistra, hanno scritto ieri una lettera in cui chiedono al governo “la rassicurazione sul fatto che gli ormai inevitabili aggiustamenti in corsa della distribuzione dei fondi non abbia ripercussioni sui progetti legati alle politiche di coesione”. Chiedono di essere coinvolti e di mostrare uno per uno lo stato di avanzamento dei lavori. Perché dunque tagliare opere e cantieri già iniziati? A favore di chi, soprattutto?

Claudia Fusani

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