Vanno a due a due gli storici, non solo i poeti. E perciò alle fatiche di Galli della Loggia si sono ben presto aggiunti anche gli sforzi creativi di Paolo Mieli. Entrambe le penne del “Corriere” scrivono sotto la potente suggestione dei concetti di Aristotele. E’ lo Stagirita che li ha guidati a comprendere ciò che distingue, e soprattutto accomuna, il poeta e lo storico. E, da cultori dell’estetica aristotelica, forzano un tantino le categorie della Poetica. Lo fanno per esercitarsi in ricostruzioni degli accadimenti che sono sottratte agli archivi per essere affidate al puro estro della fantasia.

Alle opere di storia delle istituzioni di Galli della Loggia, redatte per l’appunto sotto il criterio poetico della verosimiglianza, si deve la scoperta che il contributo alla vicenda repubblicana di Terracini è identico a quello di Pino Rauti. Che le frequentazioni universitarie di Caradonna erano dello stesso tenore di quelle di Galvano della Volpe: non importa se uno le teste le spaccava, l’altro le abituava a pensare. Che l’azione del deputato comunista di Lenola in fondo era uguale alle imprese del deputato missino che partecipò ad un weekend con il morto a Sezze nel 1976. E poi che la lealtà costituzionale di Guido Rossa era in tutto paragonabile a quella di un De Lorenzo o Miceli.

L’originalità dell’apporto conoscitivo di Mieli non è da meno. Da allievo della scuola del sospetto, come la chiamò anche Karl Löwith, egli non si accontenta di ciò che appare, scava più nel profondo per cogliere la sostanza nascosta delle cose. I frutti di questa talpa storiografica sono notevoli. In apparenza, il ministro Guerini è solo un democristiano moderato, con simpatie sempre dichiarate per Andreotti. Ma, oltre la superficie sovente ingannevole dei fenomeni, Mieli ha intuito che in lui cova una molto segreta ascendenza bolscevica. Il ritratto del maresciallo Zukov, che vinse la battaglia di Stalingrado, campeggia nell’ufficio di via XX Settembre numero 8, occultato sotto la grigia foto ufficiale del Presidente della Repubblica.

E Letta che solo alcuni anni fa dichiarò che la bandiera rossa gli procurava un incontrollato moto di paura? Solo un abile, quanto maldestro, camuffamento. Nel suo cuore batte l’impeto ideologico di un vero bolscevico. Egli cela, dietro il depistaggio cognitivo di un ostentato debito formativo maturato verso l’economista Andreatta, che per conquistare le Torri denunciava la minaccia dei carri armati sovietici, la recondita ammirazione per l’azione di governo del Consiglio dei commissari del popolo. La sua vena tecnocratica non viene certo dal soggiorno presso la scuola parigina ma dalla suggestione per l’ambizione riformatrice di Kosygin. Ora che ha individuato la vera anima sovversiva di Letta, Franceschini e Guerini a Mieli non rimane che maledire il Nazareno.

Lo denuncia come il vero palazzo della Piazza Vecchia, sede del “Tsentral’njy Komitet” del Pcus. Un abbandono di peso il suo, perché dell’amalgama ambiguo lui fu il gran cerimoniere. Il Pd nasce dopo la grande guerra estiva del 2005, scoppiata attorno alla conquista della Bnl. La sconfitta della scalata tentata dall’Unipol fu l’occasione per disarmare i DS, il cui vertice venne raffigurato dalla stampa come un manipolo di affaristi (“abbiamo una banca”).

La vera genesi del Pd risale in fondo al 17 dicembre del 2005. Quel giorno all’Hotel Radisson di Roma, in un convegno dal titolo “L’Ulivo dalle primarie al Partito democratico”, i direttori del Corriere (Mieli, appunto) e di Repubblica (Ezio Mauro) decretarono che, con l’americanata delle primarie, il fattore K poteva finalmente essere archiviato in una nuovissima casa dei riformismi. Eliminate in fretta radici, identità e legami territoriali, in nome della post-modernità del partito liquido presidenzializzato, insieme alla sinistra novecentesca è però scomparsa ogni cultura politica organizzata. Il risultato della rimozione è stato una repubblica disancorata, e per questo inerme vittima di ogni forma di populismo.

Lo stesso Mieli, se per un verso ha sollecitato la genesi del Pd, per un altro lo ha ferito contribuendo alla vittoria del populismo come sistema. Come regista editoriale nel tempo del secondo governo Prodi, reo di ospitare nel gabinetto anche i ministri di Rifondazione, ha progettato abilmente l’operazione che va sotto il nome della battaglia di via Solferino contro “la Casta”. Vanno a due a due gli storici del Corriere, “amano molte cose, forse nessuna”. Della Loggia è un viandante instancabile: nel giro di pochi anni soltanto, è passato da Grillo a Salvini e infine a Meloni. Mieli è più stanziale nelle opzioni politiche. Di sicuro una cosa entrambi odiano più di ogni altra, e con un livore sordo, al di là di una qualsiasi razionalità: la pallida traccia di rosso. La vedono riaccendersi persino nel bianco fiore dei placidi leader post-democristiani che comandano al Nazareno, con le orecchie ben indirizzate verso l’altra sponda dell’Atlantico.