Se dovessi scegliere tre caratteristiche necessarie per definire una politica riformista post Covid in Europa (e in Italia), direi: coraggio, pazienza, leadership. Coraggio per riconoscere che il ritorno a un modello economico e sociale come quello precedente alla crisi Covid è improponibile. Pazienza per portare a termine le riforme necessarie per passare a un modello innovativo. Leadership per coagulare il consenso necessario e per evitare sbandamenti nel percorso. Tutto ciò è particolarmente importante per il nostro continente. Qualcosa di cui sappiamo poco ma che sta a noi immaginare e costruire, avendo presente che la costruzione dell’Europa post Covid deve partire da una economia che fino a qualche anno fa stava uscendo da una crisi finanziaria di proporzioni globali.

Nel frattempo l’Europa, a partire da Next Generation EU, ha reagito con un approccio basato sulla solidarietà e sulla disponibilità a mobilizzare le risorse necessarie. Funzionerà? Riuscirà l’Europa a dare una soluzione riformista alle sfide che si trova di fronte? Il successo dipenderà anche dalla capacità di integrare misure strutturali con misure macroeconomiche. Per crescere occorre soprattutto cambiare. La crescita in Europa degli ultimi decenni e stata caratterizzata da squilibri macroeconomici persistenti, in particolare nei conti correnti. Il loro mancato aggiustamento ha costituito un ostacolo allo sviluppo perché i Paesi in deficit, che contribuiscono a creare domanda netta, sono limitati nello spazio di bilancio mentre quelli in surplus, che sottraggono domanda netta, hanno mostrato incentivi deboli a perseguire politiche espansive. Occorre un nuovo approccio alla gestione degli squilibri macroeconomici.

Nella misura in cui i saldi di parte corrente non riflettono fattori ciclici ma strutturali, i meccanismi di aggiustamento devono anch’essi avere natura strutturale. E qui che entrano in gioco la pazienza e la leadership. L’impatto delle misure strutturali è più forte nelle fasi di espansione, quando la propensione all’investimento aumenta. E gli investimenti sono il veicolo con cui le riforme penetrano nell’economia. Ne segue che il quadro macroeconomico deve agevolare le riforme. In secondo luogo, il “ciclo politico amministrativo delle riforme” può essere molto lungo. Ed e qui che entra in gioco il coraggio. Il ciclo delle riforme comprende i passaggi che devono essere completati per ottenere l’impatto delle misure sul comportamento del sistema economico, dal momento dell’approvazione al momento della implementazione e, poi, della percezione degli impatti delle riforme da parte di famiglie e imprese.

Un ciclo lungo indebolisce gli incentivi a introdurre riforme per il policy maker in quanto è assai dubbio che tali riforme possano produrre benefici, anche in termini di consenso, prima che ne vengano percepiti i costi. Questi ultimi, normalmente, emergono prima dei benefici, sono più concentrati e colpiscono interessi più vocali e organizzati. Di qui la necessità di introdurre misure di compensazione a favore di coloro che sono danneggiati dalle riforme, con impatti sul bilancio pubblico. La durata del ciclo delle riforme, inoltre, può essere molto diversa da paese a paese e tra settori. Per esempio, le riforme del settore dell’istruzione producono gli impatti più consistenti sulla crescita ma sono anche quelle con il ciclo di implementazione più lungo. Altre riforme, come quelle del mercato dei prodotti, richiedono cicli più brevi ma possono produrre cambiamenti di comportamento grazie all’effetto sulle aspettative se l’annuncio delle riforme è credibile.

In conclusione, le difficoltà d’introduzione e implementazione delle riforme ritardano gli aggiustamenti e si riverberano negativamente sulla crescita. Un altro fattore di freno alla crescita riguarda la possibilità che, al netto dell’impatto della crisi Covid, l’Europa si trovi in una fase di ‘stagnazione secolare’. Sintomi di stagnazione secolare in Europa includono la caduta della crescita della produttività, la caduta della profittabilità degli investimenti e il conseguente calo del tasso di interesse reale. Tutto ciò si traduce in una caduta, ad oggi non recuperata, del tasso di crescita di lungo periodo rispetto al valore di trend che era prevalente prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008. Ci sono poi i tempi della introduzione delle nuove tecnologie e in particolare di quella digitale.

Si tratta, di una tecnologia a carattere ”generale” (General purpose technology) al pari dell’elettricità o del motore a scoppio, che si diffonde in senso orizzontale e coinvolge tutti i settori di attività economica. La modalità e la velocità di adozione delle tecnologie digitali rappresentano un altro fattore che condiziona la crescita europea, soprattutto nel lungo periodo. Per una piena diffusione e sfruttamento delle tecnologie digitali occorrono investimenti e quindi riforme che li stimolino. Le riforme strutturali, poi, servono a sostenere il ruolo delle altre politiche. La politica monetaria, che nei dieci anni dallo scoppio della crisi finanziaria ha attraversato un processo di trasformazione e di innovazione senza precedenti, non è più in grado – da sola – sia di sostenere l’economia che raggiungere quell’obiettivo di inflazione (cioè il 2%) ritenuto fisiologico per il buon funzionamento del sistema.

Anche per alleviare ai limiti della politica monetaria è necessario che i Paesi membri dell’Eurozona mettano in atto politiche strutturali sul mercato del lavoro, dei prodotti e su quei fattori che incidono sulla propensione all’investimento, dalla giustizia civile alla pubblica amministrazione, al sistema educativo e della ricerca. A parità di altre condizioni, un miglior funzionamento dei mercati, a seguito di azioni di riforma, è in grado di renderli più reattivi agli stimoli della politica monetaria. Analogamente un miglior funzionamento delle condizioni di contesto per la realizzazione degli investimenti si traduce in un’accelerazione della produttività e della crescita. Nel post Covid occorre anche un sostegno aggiuntivo da parte della politica fiscale. Ripensare la politica fiscale in Europa richiede un’azione a due livelli: nazionale e comunitario. A livello di Stati membri, bisogna riconsiderare l’insieme delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita che è stato sospeso, come misura di emergenza per affrontare lo scoppio del Covid-19. Tali regole vanno rese più semplici e vanno messe in grado di meglio sostenere la crescita. Un buon punto di partenza sono le proposte di riforma contenute nel Rapporto dell’European Fiscal Board presentate nell’autunno del 2019. Prevedono la sostituzione degli obiettivi di deficit con obiettivi di crescita della spesa pubblica (eventualmente aggiustata per tener conto degli investimenti per l’ambiente) e una semplificazione delle regole fiscali vigenti con un’enfasi sulla riduzione del debito. Una strategia di riforma strutturale a livello europeo ha bisogno, infine, di un quadro generale di riferimento.

Il Green Deal rappresenta la strategia di crescita che la Commissione guidata da Ursula Von der Leyen intende seguire nei prossimi anni, a maggior ragione dopo la diffusione del Covid-19. È un progetto di crescita sostenibile e inclusiva che avrà bisogno di tante componenti: investimenti pubblici, incentivi fiscali, un sistema regolatorio adeguato e, soprattutto, investimenti privati. Solo con un massiccio riorientamento degli investimenti privati l’economia europea potrà avviarsi verso una maggiore sostenibilità ambientale. Una crescita “verde”, infatti, richiede un passaggio graduale ma deciso – una transizione, appunto – verso un sistema circolare, con tecnologie “pulite” che producano beni e servizi “puliti”, che si basino su scelte di consumo, e in generale di vita, “pulite”. Tutto ciò evidentemente richiede che ci sia un’uscita da tecnologie, prodotti e abitudini inquinanti e che puliti non sono. E questo si traduce necessariamente in investimenti delle imprese che dovranno anche cambiare, in alcuni casi radicalmente, il loro modello di business. La grande sfida sarà dimostrare che la sostenibilità genera più reddito e occupazione dell’economia ad alta intensità di carbone.

È cruciale accompagnare l’implementazione del Green Deal con un processo di trasformazione digitale dell’economia europea e di completamento del mercato unico dei servizi. Una economia verde, infatti, si realizza in massima parte attraverso la diffusione delle tecnologie digitali e la fornitura di servizi. E, d’altra parte, i servizi costituiscono in tutte le economie più avanzate la gran parte del reddito prodotto. Mercati dei servizi digitalizzati e aperti aumentano le opportunità di investimento e di fare profitti, oltre che abbassare i costi di chi utilizza i servizi come input del processo produttivo. Occorre, infine, una crescita inclusiva. Sarà importante non ripetere gli errori del passato, allorché i frutti della crescita sono andati in gran parte a beneficio di pochi generando esclusione e disuguaglianze crescenti. I forti aumenti della disoccupazione e del disagio sociale che ne sono conseguiti hanno riportato prepotentemente i temi della povertà e dell’esclusione sociale.

Raggiungere allo stesso tempo più efficienza e più equità attraverso una più equa distribuzione delle risorse è la strada più efficace per rispondere all’ondata di movimenti populistici che ha interessato tanti Paesi europei. Serve una pluralità di misure: politiche attive contro la disoccupazione, soprattutto dei giovani; politiche in grado di rinnovare e rilanciare il welfare; misure e interventi diretti a ripristinare un soddisfacente grado di mobilità sociale; una maggiore progressività delle politiche fiscali. In questa prospettiva, anche i costi di aggiustamento della fase di transizione legata al Green Deal e al post Covid vanno gestiti a livello di sistema per evitare che si riversino in modo asimmetrico e penalizzino i cittadini in posizione più fragile.