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Un comportamento così non è “critica a Israele”
Il Pd, gli ebrei, Israele e il campo largo dell’ambiguità: basta con il non-antisemitismo puramente declamatorio
Il Partito democratico farebbe cosa buona se decidesse di prendere per le corna il toro dell’antisemitismo che lo guarda e che lo riguarda. Ferma la sacrosanta battaglia antifascista condotta dal Pd tra i soprammobili di Ignazio La Russa, infatti, quel partito sarebbe maturo per smetterla di credere e far credere che i propri lombi siano, quasi per sigillo costituzionale, vergini di insinuazione antisemita e perciò incapaci di darne fuori gli irrefrenabili frutti.
Un non-antisemitismo puramente declamatorio – concomitante una volta all’anno con sempre più timide e impacciate evocazioni della Memoria – sarebbe già abbastanza desolante se non costituisse il frusto tappetino di presentabilità democratica posto a copertura di troppe imbarazzanti vergogne. Ma è peggio. Perché quella presunta estraneità alle convulsioni della belva, quel curriculum che si pretende intonso di qualsiasi segno antisemita siccome provvisto di fascetta 25 aprile, rappresentano le esibizioni fragili e contraddette di una comunità politica che non si vede per quel che è quando mena la sua vita quotidiana.
E cioè quando partecipa gioconda al Pride in cui il gay ebreo è bensì “ammesso”, ma a rischio di insulti se porta la Stella di David; quando candida a capolista il ragazzotto secondo cui Israele non doveva esistere; quando si oppone all’arrembaggio della destra alleandosi con quello secondo cui la comunità ebraica in Europa ha imposto “disvalori come il razzismo e la supremazia bianca”; quando partecipa alle marce della “pace” mischiandosi ai manifestanti che inneggiano al repulisti degli ebrei dal fiume al mare.
Ed è da qui in poi, dall’orrore del 7 ottobre e dalla tragedia della guerra di Gaza, che il problemaccio del Pd – com’era inevitabile – si è squadernato in faccia a chi non lo vede perché non ha l’onestà di vederlo. Perché l’irresolutezza del Pd in questo campo, vale a dire nel campo largo delle proprie ambiguità, si trasfigura nella deplorazione della segretaria Elly Schlein per i 500 morti inesistenti nell’ospedale bombardato dall’inesistente raid israeliano, cioè nella propaganda di Hamas; si riproduce nella mozione parlamentare che l’estate scorsa denunciava i “ripetuti attacchi al confine” del Libano, omettendo rigorosamente si specificare chi li muovesse (i miliziani filo-iraniani), e contro chi (i civili israeliani).
E infine si imbandiera di arcobaleno a Rafah, con Laura Boldrini, Andrea Orlando e Alessandro Zan a chiedere solo il cessate il fuoco “su Gaza”, non anche “da Gaza”, passeggiando sopra i tunnel in cui gli ostaggi ebrei sono torturati nell’attesa del colpo alla nuca. E un comportamento così non è “critica a Israele”. È un’altra cosa. Quella cosa.
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