A colpi di “mafioso” e “corrotto” la politica si sta suicidando
Il Pd nel mirino dei Pm, il circo mediatico-giudiziario e il buco nero in cui si sta infilando il partito di Elly Schlein
Il Pd, le inchieste sui voti di scambio, le accuse e il fuoco amico: un pericoloso intreccio tra magistratura e partiti

Quando i magistrati minacciarono uno sciopero perché non gradivano che venissero loro accorciati i giorni di vacanza, il presidente del consiglio Matteo Renzi disse con sprezzo “Brr, che paura”. Fu secondo, per coraggio, solo a Silvio Berlusconi che, neppure tanto scherzosamente, un giorno si era lasciato andare a una triste considerazione: bisogna esser proprio dei fuori di testa, per fare i magistrati. Intendendo qualcosa di molto serio, perché ci vuole una grande considerazione di sé, oppure un pizzico di follia, per mettersi una cupa toga nera sulle spalle e poi andare a giudicare gli altri. E non parliamo di quanto potere abbia nelle mani chi possieda la tagliola delle manette, la forza di un individuo di privare un altro della propria libertà.
Nei tanti discorsi di questi giorni su politica e morale, e di conseguenza moralismo e poi giustizialismo, non si tiene mai in conto questo aspetto della questione, che si trascina ormai da trent’anni, dopo le prove generali dei processi per terrorismo. Berlusconi ha pagato caro addirittura in modo preventivo il suo essersi precipitato nell’agone politico a sottrarre il boccone della vittoria a una sinistra ormai certa della vittoria nel 1994. Un uomo di grande fiuto politico come il procuratore di Milano Saverio Borrelli lo aveva ammonito: chi ha scheletri nell’armadio non si candidi. Di quali scheletri, più o meno reali, si trattasse, lo ha dimostrato tutta la successiva tortura politico-giudiziaria cui il fondatore di Forza Italia fu sottoposto. E anche Matteo Renzi, nel suo piccolo, sul piano giudiziario ha avuto la sua. Per molto tempo, in questi anni da Mani Pulite in avanti, la sinistra italiana ha goduto di una sorta di immunità. Perché si è schierata subito, prima di tutto, al fianco del giustizialismo, buttando a mare l’intero pentapartito della prima repubblica e in particolare Bettino Craxi e il Psi, nella speranza di ereditarne le spoglie. E poi, essendo nel tempo il partito erede del Pci diventato più un luogo di potere che non di elaborazione di un progetto, ha piano piano sostituito le proprie teste pensanti con le ipotesi dei pubblici ministeri.
Quando nel 2004 in Puglia il Pd candidò per la prima volta alla guida della città di Bari il magistrato della Dda Michele Emiliano, il messaggio fu chiaro. Non tanto per accreditarsi come l’unico partito capace di lottare contro la mafia. Ma, e questo è ciò che conta, per mettersi al riparo da qualunque tentazione di qualche procura che avesse osato allungare lo sguardo sui comportamenti degli amministratori del primo partito della sinistra. Dopo vent’anni evidentemente il meccanismo si è inceppato. Anche se Emiliano pare non essersene accorto. Altrimenti non avrebbe con tanta disinvoltura raccontato di aver “raccomandato” il suo pupillo Decaro alla sorella di un boss. Una vanteria che si può permettere solo chi ha la consapevolezza di avere le spalle coperte. Perché se quella stessa battuta fosse uscita dalla bocca del governatore della Calabria o della Sicilia, siamo sicuri che nessun procuratore avrebbe avuto la tentazione di contestare un bel “concorso esterno” in associazione mafiosa?
Sta di fatto che, con le inchieste giudiziarie di Bari e di Torino, che hanno coinvolto, anche in modo obliquo rispetto al nodo centrale dell’indagine, esponenti locali del Pd, si è verificata una sorta di sdoganamento dell’immunità di cui il partito ha goduto per tutti questi anni. La sorpresa è stata tale da produrre un vero rimbambimento in un mondo politico che non ne era abituato.
Tanto da non esser in grado di affrontare il problema. Lasciamo perdere la reazione di voracità politica di Giuseppe Conte, il quale, proprio come un tempo i vari D’Alema e Occhetto avevano fatto con Craxi, è pronto ad avventarsi sulle eventuali spoglie (locali) del partito di Elly Schlein. Glielo ha comunicato anche con il linguaggio del corpo quando si sono incontrati a un convegno martedì. Ma la dirigenza del Pd non è ancora pronta, non ha gli anticorpi per reagire né per proteggersi da un’iniziativa della magistratura che si avventuri nei terreni della sua area politica. Lo ha dimostrato soprattutto a Torino, costringendo alla rinuncia della candidatura di un militante, Raffaele Gallo, che era già capogruppo in Regione ed era stato già presentato come capolista all’ imminente rinnovo del consiglio regionale. Si fa pagare al figlio eventuali responsabilità del padre. Non si ha nemmeno il coraggio di leggere le carte per trovare il nulla di certe accuse. Di dire “Brr che paura” e poi confermare la candidatura in cui fino a poco prima si era creduto. E il centrodestra, di cui una parte in tutti questi anni ha pagato caro il circo mediatico-giudiziario che lo ha colpito, spesso solo a causa di pregiudizi ideologici di qualche pm e del pensiero unico dell’informazione, dovrebbe trarre una lezione dal buco nero in cui si sta infilando il partito di Elly Schlein. Invece no. E soprattutto certi dirigenti di Fratelli d’Italia, vanno in tv a fare il gesto dell’ombrello e a dire “tiè”, beccati questa pappina, ora tocca a te, brutto comunista. Così è nata la nuova politica del ping-pong, il tiro incrociato con cui ciascuna parte grida all’altra “corrotto” e “mafioso” senza rendersi conto che in questo modo sta affossando la politica.
© Riproduzione riservata