Il libro di Roberto Esposito
Il ‘pensiero istituente’: la politica non deve mai sottomettersi ad altri poteri
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Non c’è dubbio che il napoletano Roberto Esposito sia uno dei più interessanti pensatori italiani contemporanei. La radicalità, che è un po’ la cifra della filosofia, contrasta in lui con il tratto mite e schivo del suo carattere. Anche se a volte in lui traluce, all’improvviso, casomai con una battuta, lo spirito ironico partenopeo. Ovviamente se conoscete l’Esposito che scrive sui giornali del gruppo L’Espresso, conoscete veramente poco di lui. A parte il linguaggio a volte ostico e a parte la complessità dei ragionamenti, è nei suoi libri che si trova il “vero” Esposito. Il quale è sorprendente per le tesi che presenta, radicale appunto, ed è anche spesso in contraddizione con quanto scrive sulla carta stampata.
Non credo, in verità, che si tratti nel suo caso di quella che Leo Strauss chiamava la «doppia verità» che per capire un filosofo esige che si dia corpo a una sorta di aristocratica «ermeneutica della reticenza». Non vedo infatti nei suoi interventi pubblici tracce disseminate di un “pensiero altro” rispetto a quello comune, segni che i più accorti dovrebbero decifrare. Più probabilmente le contraddizioni hanno a che fare con l’idea di conflitto, che a mio avviso il filo conduttore che percorre tutta la sua opera. E che, intesa radicalmente, deve portare a vedere la divisione, il contrasto, non solo nella politica e nella società, ma più radicalmente in ognuno di noi.
Applicata alla comunità, questa idea di conflitto trova una sua compiuta rappresentazione nell’ultimo libro di Esposito, appena uscito per Einaudi: Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (pp. 242, 22 euro). Ad ognuno di essi, l’autore dedica una parte del suo libro. Affermando che, mentre i primi due sono quelli che hanno dominato la filosofia novecentesca, il terzo, che chiama «istituente», è ancora poco sperimentato.
Così come poco frequentato, almeno in Italia, è l’autore a cui esso può essere intestato: il francese Claude Lefort, allievo di Maurice Merleau-Ponty e studioso di Niccolò Machiavelli (che del conflitto è stato il massimo teorico di ogni tempo). Ovviamente non è questa la sede per affrontare la parte più prettamente filosofica del libro di Esposito. Diciamo solo, per restare alla tipizzazione offertaci dal libro, che, mentre il primo paradigma, che viene chiamato «destituente», ha il suo campione in Heidegger; il secondo, definito «costituente», lo ha in Gilles Deleuze (ovviamente Esposito fa riferimento agli autori della tradizione di pensiero su cui si è formato, ma il discorso potrebbe trovare a mio avviso riscontri anche in altre).
Se nel primo caso fra filosofia e politica, pensiero e azione, viene tracciato uno iato invalicabile, nel senso che dalla teoria non si possono derivare indicazioni più o meno cogenti per la concreta prassi politica; nel secondo, le due attività finiscono per sovrapporsi senza soluzione di continuità (non credo fuor di luogo ricordare a questo secondo proposito il Marx che diceva che i filosofi, che hanno finora interpretato il mondo, ora devono capire che si tratta di cambiarlo).
La «terza via» di Esposito si riconnette invece ad una visione storicistica e mai compiuta della vita umana, solcata da una conflittualità che non è accidentale ma strutturale. Non solo: non è nemmeno auspicabile che essa sia estirpata. «Nel paradigma istituente, per questo definibile neo-machiavelliano, l’essere sociale non è né univoco né plurivoco, ma conflittuale. A caratterizzare il sociale, cioè ogni relazione interumana, è la tensione del Due. Il ruolo del politico, centrale e ineliminabile, è quello di mettere in scena tale divisione, sollevandola dal piano empirico dello scontro di interesse e di potere a quello, simbolico, del governo della società».
Dalla società viene perciò lo spirito istituente che, superato un certo limite, ad un certo punto sbaraglia le forme del potere costituito e ne crea altre più «adeguate». Incidendo dall’interno, e non violentemente dall’esterno come potrebbe fare (o presumere di fare) una Rivoluzione. L’importante è non interrompere mai questo processo di tensione fra politica e società: l’una non deve predominare sull’altra. Quindi: né una politica succube di poteri altri, come la magistratura, la finanza, la comunicazione; né una politica che voglia dominare e soffocare lo spirito trasformativo che viene dal basso. Il circolo non va interrotto nemmeno in questi giorni, ai tempi d, voglio dire. Giusto legarsi ai simboli del potere politico, ma lasciandoci sempre lo spazio per un pensiero critico.
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