La maxi-inchiesta
Il pentito Squillaci compila la Treccani della mafia: chiacchiere prese per oro colato dai Pm

Chissà se il nome di “Thor”, il supereroe dei fumetti in lotta con i Giganti del ghiaccio, l’hanno scelto i carabinieri dei Ros o i magistrati della Dda. E chissà se era un omaggio all’ultimo pentito della mafia catanese, Francesco Squillaci. Fatto sta che la definizione si attaglia perfettamente a un’inchiesta che somiglia più alla Treccani che non a indagini di polizia. È la storia di Cosa Nostra nella città di Catania negli anni 80 e 90, che arriva fino al 2007. Indagini chiuse in questi giorni, che riguardano ventitre delitti e hanno prodotto ventitré arresti, e molto altro. Tutto ricostruito nelle parole dello “storiografo” Francesco Squillaci, ergastolano dalla storia feroce, collaboratore di giustizia da due anni, che non si accontenta di raccontare quel che ha fatto e quel che sa personalmente.
Ma riesce a ricostruire anche quel che accadeva quando in Sicilia si consumavano cento omicidi all’anno («Si uccideva per un nonnulla», dice il procuratore capo Zuccaro), e lui di anni ne aveva dieci o dodici. E anche quando, poco più che ventenne, poté assistere ai “festeggiamenti per la morte di Falcone” nel mondo di Cosa Nostra a Catania. E, da consumato politico, quasi parlasse di diverse correnti dello stesso partito e non di gruppi di sanguinari, sottolinea che però Nitto Santapaola, capo incontrastato della mafia nella città etnea, non era d’accordo su quell’omicidio, infatti «non era felice, anzi era molto preoccupato e si diede latitante».
Giudizi simili, sempre in chiave di ricostruzione storica e analisi politica, su altri delitti che però non fanno parte dell’inchiesta “Thor”, anzi non c’entrano proprio niente. E non si capisce per quale motivo debbano essere allegati agli atti di questo processo. Ma la storia è storia, si sa. Così dai 23 omicidi che riguardano strettamente questa indagine, si arriva a 50. Si chiacchiera liberamente dell’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e di quello dell’ispettore di polizia Giovanni Lizzio, per il quale Squillaci è già stato condannato a 30 anni di carcere, quindi non ci sarebbe più niente da dire. Ma no, lo “storiografo” vuole approfondire tutti gli aspetti, sociali, politici, e anche psicologici dei protagonisti. Quel delitto, dice, «fu deciso da Santapaola a malincuore», ma non si poteva fare diversamente perché «sarebbe stata una forzatura per fare contenti i Corleonesi». Stati d’animo, registrati fedelmente.
Parlano, parlano, parlano. Purtroppo, e da molti anni, più o meno da quando non esistono più poliziotti come Contrada, che aveva i suoi informatori e consumava la suola delle scarpe, la gran parte delle indagini sui delitti di mafia è fatta così. Una sorta di catena di S. Antonio nelle mani dei “pentiti storiografi”. Veri o falsi, attendibili o credibili non ha più molta importanza. Enzo Scarantino, costretto a fare il “pentito” del delitto Borsellino un po’ controvoglia, ha usato la fantasia e fatto condannare persone che sono rimaste, innocenti, nelle carceri speciali per 15 anni. Quindici anni della loro vita. Poi è arrivato Gaspare Spatuzza, che li ha fatti scarcerare e ne ha mandato in galera degli altri. E siamo sicuri che domani non arriverà un Cicciobello a smentire Spatuzza e creare nuove porte girevoli di colpevoli-innocenti che entrano e escono dal 41bis?
E dopo Francesco Squillaci, la cui attendibilità sarebbe accertata dal confronto con le parole di altri “pentiti” (quindi siamo alle solite), chi ci garantisce che non arriverà un altro “Thor”, il dio del tuono in lotta con i Giganti del ghiaccio, a travestirsi da storico e riempire un’altra Treccani di nuove “verità”?
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