Parlare di abuso della custodia cautelare significa parlare necessariamente del “pericolo di reiterazione del reato”, cioè della più abusata delle tre esigenze di cautela processuale (le altre due sono il pericolo di fuga e quello di inquinamento delle prove) che legittimano la privazione della libertà di una persona solo sospettata di aver commesso un reato.
Dovrebbe far riflettere la constatazione che proprio la esigenza cautelare meno legata a criteri oggettivi sui quali fondare la presunzione di pericolo, sia la più ricorrente e diffusa ragione per la quale i Pubblici Ministeri chiedono, e i GIP dispongono, la custodia cautelare dell’indagato. E la ragione di questo paradosso è purtroppo chiara, essendo il pericolo di reiterazione, in realtà, la motivazione più difficilmente sindacabile e controllabile.

Il pericolo di fuga e di inquinamento prova

La “attualità e concretezza” del pericolo di fuga è legata a biglietti aerei acquistati, macchine in procinto di varcare i confini, agenzie di viaggio mobilitate. Il pericolo di inquinamento della prova è legato a fattori più agevolmente verificabili (stato delle indagini, qualità soggettive dell’indagato, etc), ma soprattutto il Giudice, in tal caso e solo in tal caso, deve necessariamente indicare un termine di vigenza di questa esigenza cautelare. Invece il pericolo di reiterazione del reato è oggetto di una pura e semplice predizione, e tutte le cautele adottate dal legislatore (che non a caso impiega più del doppio delle parole, rispetto alle altre due esigenze cautelari, nel tentativo di frenare o circoscrivere l’arbitrio motivazionale connaturato a una simile valutazione), si sono dimostrate e si dimostrano inutili.

I giudici veggenti

Io non solo presumo, sulla base di gravi indizi che però non sono prove compiute, che tu abbia commesso quel reato; ma presumo altresì che, se ti lascio libero, lo commetterai di nuovo. Una previsione di recidiva, insomma, quando ancora non sappiamo se tu sia davvero il colpevole. Un doppio salto mortale carpiato. Credo che appartenga al senso comune, e meglio ancora al buon senso, pensare che una persona raggiunta dall’accusa di aver commesso un reato, e dunque – nel linguaggio di polizia – attenzionato dall’Autorità giudiziaria, sia perciò solo indotto, almeno di primo acchito, ad evitare condotte reiterative; salvo ipotesi patologiche, le uniche che conferiscono a questa misteriosa predizione il necessario ancoraggio a elementi sintomatici oggettivi. Il tossicodipendente che deve continuare a procurarsi risorse per acquistare la droga; lo stalker compulsivo; l’omicida seriale.

E se i reati in contestazione sono legati alla funzione (il pubblico ufficiale che concute o si fa corrompere), perché non dovrebbe bastare l’interdizione dalla funzione stessa? Invece, è tutto un fiorire di formule generiche, legate alla personalità dell’indagato, alla gravità del fatto, alle modalità della condotta, che aprono le porte del carcere (o della detenzione domiciliare), senza concrete possibilità di sindacarle. E perciò si arriva ai casi limite come quello del Governatore Toti, dove il pericolo di reiterazione del reato, nientedimeno, si è fondato sul fatto che questi, non avendo ammesso la colpevolezza, avrebbe mostrato incomprensione della illiceità della propria condotta, e dunque l’avrebbe con elevata probabilità reiterata se lasciato libero.
Dunque di questo si occupa PQM questa settimana: un tema di enorme importanza e delicatezza, che incrocia in modo davvero impattante quello del diritto alla libertà personale che spetta a ciascuno di noi, prima di un giudizio di colpevolezza. Buona lettura.

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Avvocato