La pace positiva
Il popolo, la politica e la democrazia: l’essenza della visione di Papa Francesco

L’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” presenta al proprio interno forti e continui richiami a una tensione di tipo storico politica e sovente si possono incontrare profonde riflessioni sistemiche sulla capacità delle democrazie e delle Istituzioni rappresentative di garantire e preservare la pace sociale, nonché sugli assetti di governance che per il Pontefice si ritengono più opportuni al fine di assicurare la concordia tra i popoli e i diritti umani fondamentali.
Alla base, e come filo conduttore di questa tensione, c’è sicuramente la meditazione condivisa con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, che nell’Enciclica a tratti prende la forma di un appello a governanti e Istituzioni per promuovere la cultura della convivenza e della pace e arginare, invertendo repentinamente la rotta, le politiche di odio e paura messe in campo da Governi e Nazioni ancora oggi in lotta tra di loro (FT 192). Come emerge anche in altre pagine di questa analisi ragionata dell’Enciclica il concetto di pace a cui il Pontefice afferisce è un concetto di pace “positiva”, che permea e avvolge il tema dei diritti inalienabili della persona umana e non un mero cessare di violenza e ostilità. L’intera Enciclica si alimenta e legittima quindi dalla profondità dell’analisi storico politica che viene trattata. Innanzitutto, la parabola storica dei nazionalismi in relazione decisamente critica agli attuali fenomeni politici che nella retorica delle rivendicazioni, vengono etichettati in maniera roboante quanto impropria e fuorviante come “sovranismi”. Ma c’è anche una lettura molto densa e saliente che legittima e sostanzia questa critica sul rapporto tra populismo e democrazia, in cui la dialettica tra popolo e sistema di rappresentanza, tra governo e diritti, viene sviscerata con assunti in cui emergono chiari sia limiti che benefici con una visione lunga e diacronica. Ed è quindi come segnalato sulla base di una lettura densa quasi di tipo “dottrinale” che Francesco motiva e legittima la sua analisi. Gli argomenti utilizzati infatti sono, molto salienti e corposi e vengono nell’organizzazione dell’Enciclica ancorati a un concetto di politica alta la cui missione è reputata talmente rilevante da essere oggetto di uno specifico paragrafo capitolo intitolato la “Migliore politica”.
La tensione verso il popolo in questa visione è presente ed è indubbiamente valutata come fattore positivo, tuttavia l’ammonimento sulle degenerazioni populiste è netto e sapientemente argomentato. “Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle Istituzioni e della legalità” (FT 159). Questo tipo di scenario, in cui la matrice populista diventa preponderante secondo il Pontefice, si manifesta ancora oggi in alcuni campi dell’organizzazione politica e della governance mondiale tanto da comportare “segnali di ritorni all’indietro della storia” (FT 11) in cui: “Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della Nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali” (FT 11). In questa chiave di lettura il populismo finisce per rappresentare una deformazione del rapporto “sano” tra popolo e meccanismi di rappresentanza democratica.
Per cui: “La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo” (FT 157). D’altra parte, questa tensione tra rappresentati e rappresentanti, secondo il Pontefice, non va nemmeno sopita con un eccessivo ricorso alla politica “globalista” che annacqua le differenze dei popoli e delle comunità in nome di una governance “distaccata”, distante dai popoli e dalle comunità capace di auto legittimarsi come mera composizione di interessi individuali, seppure in forma più o meno organizzata. Il concetto di “popolare” trascende nel corso dell’Enciclica e nella chiave di volta del Pontefice da un significato “politico” a un significato più ampio, di carattere culturale, economico e sociale che realizza pienamente le finalità di partecipazione e inclusività in capo a una rappresentanza democratica efficace e responsabile, sana, vitale e non “atrofizzata”. In grado quindi di non appiattirsi, non assuefarsi, e non abdicare al proprio ruolo anche dinnanzi ai tumultuosi processi di globalizzazione economica e finanziaria degli ultimi decenni. “C’è un modello di globalizzazione che «mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. […] Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo.
Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare.” (FT 100). Questo forte richiamo al “popolo” come soggettività da non lasciare al di fuori dei processi di rappresentanza e d’altra parte fondamento da cui trarre legittimazione per costruire politiche eque e inclusive, di “giustizia” sociale, si concretizza nel richiamo a considerare le marginalità sociali come pietra angolare per costruire politiche realmente lungimiranti e dunque compiutamente sostenibili.
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