In democrazia, come non si stanca di ripetere la presidente del Consiglio, l’esercizio del potere politico può essere considerato legittimo solo quando si presenta come una emanazione diretta della volontà popolare. Ma cos’è il popolo? Un insieme di singoli individui uguali oppure una massa unitaria, una comunità presuntivamente omogenea le cui radici affondano in una tradizione da conservare e sviluppare con lealtà e fierezza? È del tutto evidente che – per la cultura politica che forma la maggioranza attualmente al governo – il popolo è una realtà predeterminata fondata sulla comunanza di luogo, linguaggio, religione, cultura o storia. La sovranità si configura sia come la cosciente realizzazione della sostanza etica di una comunità concreta, sia come lo strumento a cui è demandato il compito di circoscrivere i confini che definiscono chi è membro della comunità e chi no. In questo caso, come dimostra l’ostilità all’introduzione del cosiddetto Ius Soli, in maniera particolarmente rigida.

La caratteristica saliente delle politiche impostate in senso cultural-nazionalista è ritenere legittimo l’esercizio del potere politico solo a condizione che sia ispirato a una identità religiosa, civile, culturale (la Patria/Nazione) e che non derivi da un astratto contratto sociale tra individui, ma tragga la propria legittimità dall’essere espressione di una storia da conservare e difendere dalle minacce, interne ed esterne. Il popolo è una realtà che trova le proprie radici nella cultura prepolitica di una tradizione che vede la sua sintesi nella triade “Dio, Patria e famiglia”. L’espressione “cultura prepolitica” sta a definire una realtà che precede l’esercizio del potere di governo, per cui il senso di appartenenza che fa accettare le decisioni del legislatore non deriva semplicemente dal rispetto per la legge, ma si basa su orientamenti di valore ispirati a fattori comuni preesistenti che rinviano a narrazioni e storie che dispongono di rituali e simboli come qualcosa di dato.

Ciò che caratterizza la cultura nazionale può essere dunque specificabile indipendentemente dalle procedure politiche e la loro applicazione considerata come la diretta e legittima espressione di una tradizione nazional-culturale egualmente condivisa da tutti i cittadini. Questa concezione appare però sempre più in evidente contrasto con il pluralismo che caratterizza una società aperta e democratica, come dimostrano le polemiche su temi controversi quali l’eutanasia e l’aborto, la procreazione assistita e gli studi sulle cellule staminali, le ricerche sugli embrioni umani e il trattamento dei malati terminali. Per questo la legittimità democratica non andrebbe localizzata in un’entità collettiva convertita in sovranità popolare e nazionale, ma nella forma politica in cui la sovranità si esercita – in linea con il pensiero politico liberale – attraverso l’equilibrio tra poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) distinti e bilanciati.

Questo non significa dissolvere il significato di “popolo” in una rete anonima di regole impersonali, poiché la teoria democratica – oltre che procedurale – è anche autoreferenziale: presuppone soggettività politiche capaci di prendere attivamente parte a una prassi comune. Significa invece che il demos, inteso in senso regolativo, non è un corpo collettivo che esiste al singolare, quasi fosse un macro-soggetto capace di volere e di decidere da sé. Il “popolo” (tranne quando parla nel momento costituente in cui gli ordinamenti vengono creati e rappresenta il tutto cui spetta il potere sovrano) non è che la somma delle parti che lo costituiscono e che esprimono interessi diversi e conflittuali la cui composizione, sempre provvisoria, va affidata alle regole destinate a favorire le soluzioni di compromesso. Nessun complesso effettivo di processi e di normative potrà mai essere pienamente all’altezza degli ideali che sono costitutivi dell’autogoverno democratico; spetta alla fantasia istituzionale scegliere volta per volta quelli che possono meglio corrispondere alla volontà legittima derivante dall’autolegislazione presuntivamente ragionevole di cittadini politicamente autonomi. È proprio della teoria democratica il fatto di essere costantemente aperta alla sperimentazione e all’innovazione, dal momento che la democrazia non è identificabile con l’unanimità in quanto presuppone il dissenso e la contestazione, che non possono essere repressi neppure quando le preferenze dei cittadini danno vita ad ampie maggioranze, ma devono sempre poter trovare il modo di esprimersi e manifestarsi nel confronto pubblico e argomentativo.

La teoria democratica non offre quindi una risposta univoca e incontestabile alla domanda: “Chi è il popolo?”. Nella dimensione costituzionalistica che è propria delle democrazie liberali, popolo è sinonimo di “tutti i cittadini”, di tutti i membri del gruppo giuridicamente autorizzati a dire “noi”; è un insieme di individui uniti da rapporti che si fondano su un equilibrio precario e instabile perché divisi da tensioni e contraddizioni che non sempre è possibile distillare verso l’alto in nome di un bene superiore. Il popolo non può che configurarsi come un processo in corso, una politica emergente, il risultato di un’interazione dinamica tra sfide esterne, risposte interne e pratiche di cittadinanza, che si svolge in contesti nei quali decisioni, omissioni, progetti, crisi ed effetti indesiderati si intrecciano gli uni con gli altri e che non si lasciano confinare entro il perimetro dello Stato nazionale. Il popolo è tanto ciò che esiste quanto ciò che può sorgere.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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