«La tentazione del “governo della paura” – dice ancora il Procuratore generale – ha riflessi anche sul pubblico ministero. Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo». E siamo così ai rischi di un populismo giudiziario. Abbiamo detto dei molti usi populisti del diritto e della giustizia penale: tra di essi ce ne sono “di destra” e “di sinistra”, sedicenti “progressisti” o velatamente conservatori, portati avanti da partiti rappresentati nelle istituzioni o da movimenti sociali che confondono legittimi obiettivi politici con la punizione dei propri avversari. Tutti hanno in comune la ricerca di consenso attraverso l’abuso del diritto penale. Ma tra di essi possono esserci anche attori istituzionali, che abusano del loro ruolo per costruire o rafforzare il proprio consenso nella sfera pubblica. Così è stato per l’ex-ministro dell’Interno, così può ben essere da parte di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, come rilevato da tempo da parte di un acuto osservatore come Giovanni Fiandaca. La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, che deve essere moderata «dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio», dice ancora Salvi, «deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero» che, aggiungo io, sarebbe inevitabilmente attratto nell’orbita dei poteri elettivi, con i relativi oneri e le relative responsabilità. Questa, dunque, la rilevanza del contributo offerto dal Procuratore Salvi a una riflessione non occasionale sul rapporto tra politica e giustizia. Speriamo che se ne faccia tesoro per il futuro.