Il populismo giudiziario ha un nuovo nemico: il procuratore Salvi

Dobbiamo essere grati ai vertici della magistratura, al Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, al Procuratore generale Salvi, a molti presidenti e procuratori generali di Corte d’appello, per le parole di verità che hanno pronunciato sulle difficoltà della giustizia italiana, sui rischi di politiche scriteriate, sugli effetti che esse comportano nel delicato sistema dell’esecuzione penale, sovraccarico di misure detentive impossibili da eseguire in condizioni di dignità e sicurezza, per i detenuti e per gli operatori. Una volta tanto il confronto parlamentare sull’inaugurazione dell’anno giudiziario andrebbe fatto dopo: dopo aver ascoltato analisi e riflessioni che dovrebbero far cambiare agenda e prospettive all’azione di governo e ai lavori parlamentari, a partire dalla soluzione della stortura generata dal processo infinito, vero e proprio abuso contro i diritti degli imputati e le norme costituzionali e sovranazionali che li proteggono.

Purtroppo, però, il Parlamento è ostaggio di diverse forme di populismo penale, maturate in un trentennio di abusi del diritto e della giustizia e ormai equamente annidate al governo come all’opposizione. Difficile, dunque, che se ne esca in tempi brevi, ma le parole delle supreme magistrature e, in particolare, quelle del Procuratore generale Salvi meritano di essere riprese perché individuano efficacemente gli elementi costitutivi degli usi populisti del diritto e della giustizia penale e i danni che ne possono venire all’esercizio della giurisdizione, alle responsabilità della politica, alle aspettative della società civile. In questo quadro due mi sembrano i passaggi decisivi del discorso del Procuratore generale che meritano di essere estrapolati dalla contingenza e posti a base di una riflessione di più lungo periodo e, speriamo, di qualche prospettiva: quello relativo alla diffusività dell’intervento penale e quello sulla responsabilità dei magistrati del Pubblico ministero nella comunicazione pubblica del proprio lavoro.

«Mentre sono ormai condivisi, nella pratica della giurisdizione, i principi costituzionali, non sembra pienamente affermato – dice Salvi – il tratto distintivo di un diritto penale quale delineato dalla Carta, che è – innanzitutto – la sua eccezionalità e sussidiarietà; la sua natura di ultima ratio». Quando si parla di panpenalismo si intende esattamente questo: una involuzione della politica che non sa immaginare per sé altro ruolo e altra funzione che quella di indicare a una società legittimamente sofferente e timorosa del futuro la prospettiva di una responsabilità penale e del suo capro espiatorio, lo «spostare le politiche pubbliche dal fenomeno e dalla sua complessità ai suoi soli risvolti punitivi».

È questo uno degli elementi costitutivi dell’uso populista del diritto e della giustizia penale da tempo individuati dalla migliore letteratura scientifica internazionale, a partire dagli scritti di quel Jonathan Simon citato da Salvi nella traduzione italiana (il “governo della paura”) della sua opera magistrale su come la “guerra al crimine” ha trasformato la democrazia americana: governing through crime, governare attraverso (oserei dire: per mezzo) della criminalità (e del suo uso politico, ovviamente). I fenomeni devianti non sono affrontati nelle loro cause e nei loro presupposti, ma sono agitati a fini di consenso da una politica impotente o incapace.


«La tentazione del “governo della paura” – dice ancora il Procuratore generale – ha riflessi anche sul pubblico ministero. Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo». E siamo così ai rischi di un populismo giudiziario. Abbiamo detto dei molti usi populisti del diritto e della giustizia penale: tra di essi ce ne sono “di destra” e “di sinistra”, sedicenti “progressisti” o velatamente conservatori, portati avanti da partiti rappresentati nelle istituzioni o da movimenti sociali che confondono legittimi obiettivi politici con la punizione dei propri avversari. Tutti hanno in comune la ricerca di consenso attraverso l’abuso del diritto penale. Ma tra di essi possono esserci anche attori istituzionali, che abusano del loro ruolo per costruire o rafforzare il proprio consenso nella sfera pubblica.

Così è stato per l’ex-ministro dell’Interno, così può ben essere da parte di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, come rilevato da tempo da parte di un acuto osservatore come Giovanni Fiandaca. La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, che deve essere moderata «dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio», dice ancora Salvi, «deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero» che, aggiungo io, sarebbe inevitabilmente attratto nell’orbita dei poteri elettivi, con i relativi oneri e le relative responsabilità. Questa, dunque, la rilevanza del contributo offerto dal Procuratore Salvi a una riflessione non occasionale sul rapporto tra politica e giustizia. Speriamo che se ne faccia tesoro per il futuro.