Finalmente conosciamo il vincitore delle elezioni negli Stati Uniti, mentre il vero sconfitto si conosceva già da tempo: la convinzione neoliberista che il libero scambio sia sempre vantaggioso. Ancor prima di trionfare nelle presidenziali, Donald Trump aveva riservato ampio spazio nei suoi discorsi alle politiche commerciali ed economiche. In quello che forse è il Congresso più diviso nella storia americana, uno dei pochi temi su cui c’è stato un accordo bipartisan negli ultimi 8 anni è stata la necessità di maggiore protezionismo e meno libero scambio.

L’unica distinzione tra repubblicani e democratici è stata l’intensità con cui hanno applicato queste politiche. Le continue dichiarazioni del tycoon sul tema hanno inquinato il dibattito e settato l’agenda. Ora chi esalta i benefici dei mercati globali liberi è visto come una voce residuale nel dibattito. Persino i sostenitori della Bidenomics (neologismo che indica l’economia di Joe Biden) hanno appoggiato dazi e sussidi. La portata di questo cambiamento è notevole. Fino a poco fa si registrava un consenso quasi universale sulla necessità di mercati aperti. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) era stata creata per relegare i dazi nel dimenticatoio delle politiche fallite, accanto al Gold Standard e al comunismo. Le teorie ricardiane del vantaggio comparato (il libero scambio apporta benefici a tutte le società) erano considerate incontestabili. L’ingresso della Cina nel WTO nel 2001 fu lo zenit di questa sorta di dogma.

Prima dell’arrivo sulla scena di Trump il commercio non era davvero un argomento di primo piano. Al di là dei movimenti No Global di Seattle e Genova che manifestavano contro i vertici del WTO o delle torri d’avorio delle università e dei think tank dedicati al libero mercato, la gente comune non era interessata al tema. Veniva visto come qualcosa per economisti di sinistra e per esperti di policy. Per tutti gli altri il mondo dei dazi, dei sussidi e delle barriere non tariffarie era troppo noioso per essere appassionante. Ma Trump ha cambiato tutto questo. Nel 2016, mentre era in campagna elettorale, dopo aver ascoltato uno dei suoi lunghi sproloqui sul male del libero scambio sorgevano spontanee due domande: perché ci tiene tanto? E perché pensa che importi a qualcun altro?

Sembrava assurdo che un populista ponesse un tema così complicato al centro della sua campagna elettorale insieme all’immigrazione. Eppure gli elettori più fedeli di Trump non sono rimasti né sorpresi né confusi. Numerosi video su YouTube risalenti agli anni ’80 mostrano un Donald misurato, persino pacato, finché non si parla di commercio. Poi la sua ossessione diventa chiara, con il Giappone come bersaglio principale all’epoca (“Ci ridono in faccia a causa della nostra stupidità“). Negli oltre 40 anni sotto i riflettori ha sempre sostenuto che il commercio – e l’economia più in generale – sia un gioco a somma zero. Avere un deficit nella bilancia dei pagamenti con un altro paese (ovvero importare più di quanto si esporta) equivale a perdere. La banalità delle sue opinioni economiche possono essere certamente messe in discussione, ma non si può negare il successo nell’aver influenzato l’opinione pubblica.

Forse è una visione troppo semplicistica. Magari Trump è solo il risultato del malcontento post-crisi finanziaria del 2008. Se non fosse stato lui, qualche altra figura marginale contro la globalizzazione avrebbe potuto farsi strada nel mainstream. Ma pochi sarebbero stati in grado di cavalcare questo spirito con la stessa efficacia, visto che la sua determinazione è praticamente unica su un argomento che – fino a prima – non si era imposto nell’immaginario.

Si può parlare degli effetti del libero scambio, si può discutere su chi ne trae beneficio e su chi viene penalizzato. Si possono denunciare le sofferenze di quelle persone della Rust Belt in Pennsylvania, colpite dal declino delle loro industrie del carbone e dell’acciaio spostate in città come Chongqing in Cina. Ma l’effetto netto delle barriere commerciali è certo: una crescita più lenta, una scarsa produttività e una ridotta possibilità di creare ricchezza. Forse porterebbe a minori disuguaglianze, ma questo è un aspetto che crea ancora perplessità tra gli economisti. Tra l’altro la narrazione della destra trumpiana riflette ironicamente lo stesso pensiero della sinistra, secondo cui la crescita economica non è sempre positiva, non migliora la vita di tutti e i suoi effetti non sono sempre vantaggiosi per la società.

Nel 2020 Biden, dopo aver vinto, definì “aberrante” il periodo targato Trump. Ma a distanza di 4 anni è stato dimostrato che “aberrante” fu la speranza di Joe di tornare all‘era pre-Donald. Il mondo prima del 2016 godeva di una gloriosa, seppur breve, età del libero scambio. In un certo senso, siamo tutti ormai un po’ trumpiani. L’America sta scivolando inevitabilmente verso un isolazionismo dorato. Non resta che guardare con stupore alla follia economica di tutto ciò e augurare buona fortuna agli Usa.