E’ uno strano Primo Maggio quello che si va celebrare. E forse questa volta, è l’impressione da cui parto, non si tratta di celebrare e tanto meno di una ricorrenza da rispettare, perché questa data viene a interpellarci, non è il punto esclamativo di un’affermazione, ma porta con sé l’interrogativo di una domanda. Che vuol dire oggi, adesso, la Festa del Lavoro? E cosa vuol affrontare la Domanda che ci pone? E quale è la Domanda?

E’ persino ovvio ricordare quanto il passaggio nel quale ci troviamo sia sospeso tra un prima che già era denso di problemi e un dopo, o sarebbe meglio dire, in queste condizioni, un transito che fatichiamo ad immaginare e si riverbera su tutta la realtà, sarebbe meglio dire gli strati, i livelli, le posizioni, i problemi, le contraddizioni, la complessità di cui è fatta, insieme alla molteplicità – anch’essa problematica e ancor più messa alla prova – del discorso con cui si dice, si rappresenta e si mette in discussione.

Che ne è del lavoro in questa nuovo, diveniente e mutante contesto? Ecco la Domanda che il Primo Maggio ci rivolge. Che ne è del Lavoro che la Costituzione della Repubblica elegge a fondamento della Repubblica e che la sapienza popolare, che ha la legittimazione arcaica di se stessa, individua come tratto nobilitante dell’umanità?
Sapevamo già quanto fossimo in un territorio frammentato, scisso, con vettorialità e forze diverse, giocate tra i poli della tradizione e dell’innovazione, dell’analogico e del digitale, dipendenza e autonomia, precarietà e stabilità. Sapevamo che le società cosiddette (più) sviluppate hanno una strutturale dis-occupazione (come le crisi a cui sono soggette), quella che un filosofo chiamava “l’esercito industriale di riserva”, che oggi è una galassia contraddittoria, dove la funzione di riserva si accompagna all’esclusione e alla marginalità spesso irreversibili.

Un virus minaccia di entrare in questo territorio come un elefante fra i cristalli?! Potrebbe essere una metafora esplicativa della crisi, ma non basta a rendere conto di una questione di fondo: sarà il virus il demiurgo spietato e invisibile che deciderà di cosa sta diventando/diventerà il lavoro o sarà ricompreso nella ricostituzione di un dispositivo che alla fine deciderà comunque del lavoro e dei lavoratori?

Il virus, è bene dirlo, non è ormai (solo) un agente esterno, è entrato nel nostro sistema di relazioni, sta nel nostro pensiero/discorso, condiziona il dispositivo che lo affronta e, al tempo stesso, questo dispositivo non subisce soltanto, non è un terminale passivo ma costituisce un punto di vista attivo con le prassi conseguenti che innesca.
Sarebbe semplice identificarlo con il Governo – che certo è in prima linea e ci ricostituisce giorno dopo giorno, un’ordinanza dopo l’altra – il dispositivo è assai più articolato e dentro ci stanno i soggetti e i poteri dell’economia e della finanza, le tecnologie che sono così pervasive da aver risucchiato sempre di più il lavoro al proprio interno e di espellerne altrettanto (?) dal circuito della produzione, soprattutto quella immateriale che non si applica a dati e informazioni, quale che ne sia la figura, le relazioni e la geopolitica continentale e global (e cosa, verrebbe da dire, di più local-global di questo virus?)

Sarebbe troppo semplice, anche se la storia ci ricorda che i processi che attraversano i dispositivi generano sempre qualcuno che ne diventa la figura, salvifica o capro espiatorio che sia. Però, questo campo accidentato di interdipendenze, attraversato da fragilità che si rovesciano su quelle che già c’erano e ne rivelano di nuove, in potenza drammatiche, si trova di fronte a un bivio di cui dobbiamo essere consapevoli. E la divaricazione passa tra la congiuntura e il livello strutturale delle cose, tra l’adesso e il domani: non sappiamo bene dove stiamo andando, ma dobbiamo avere lo sguardo il più largo e il più avanti possibile, uno sguardo che deve avere un respiro del sistema, del suo divenire e dei margini di governo/progetto che ci consente.

Serve uno strabismo che ci consenta di guardare contemporaneamente vicino e lontano, e che sia – ecco un nodo dirimente – il più condiviso possibile. Insomma, dobbiamo decidere se lasciar fare alla invisible hand del virus e se il virus debba essere solo il simulacro di un dispositivo che tende a riorganizzarsi.

E’ su questo nodo e nel neo-contesto del Covid che si toccano fino a coincidere i due temi su cui si è giocata la modernità industriale e quella (post) globale-digitale: la questione del lavoro e la sostanza della democrazia, la libertà dal bisogno e il bisogno di libertà.

Nella strutturale dimensione del cambiamento, la questione storica che ci riguarda resta quella di prima: il lavoro, il lavoro per tutti, in una società in cui tutti sono rappresentati, consapevole del mondo che la circonda e del limite con cui deve affrontarlo e viverci. Allora, è e sarà Primo Maggio.