Durante la chiusura forzata, e tuttora, abbiamo imparato a misurare la capienza delle cose. I ristoranti, i bus, i treni, i cinema, le scuole, le chiese, non vi è luogo che non sia stato misurato, valutato, pesato per stabilire quanto potesse contenere. Come se si il mondo si fosse improvvisamente ristretto e ogni cosa assomigliasse a un modesto ascensore la cui portata, stampigliata su una targhetta metallica, abbiamo sempre considerato come il limite della sua capacità.
Si discute e si discuterà a lungo di prescrizione e di tempi del processo, ma la giustizia italiana avrebbe bisogno urgente della sua targhetta, di un attestato oggettivo, trasparente, affidabile che ne misuri la “capienza” ossia la reale capacità di rispondere e in tempi certi all’enorme domanda di giustizia civile e penale che proviene dalla società. Non lo si è mai fatto.

Anche oggi si va a spanne, sulla base di statistiche che, a esempio, nulla dicono circa la qualità delle sentenze prodotte dagli uffici in apparenza più virtuosi, circa l’e sito delle loro impugnazioni, circa l’adeguatezza delle argomentazioni spese. Quasi che scrivere sentenze lunghe quanto un tweet fosse il migliore dei risultati possibili in attesa di limitarsi a un like sulle tesi di una parte o dell’altra. È vero piuttosto che corpose resistenze corporative, una frammentazione pulviscolare delle sedi giudiziarie, una diseguaglianza di risorse tra ufficio e ufficio sono solo alcuni dei fattori che si frappongono all’idea di stabilire esattamente quanti e, soprattutto, quali procedimenti sia possibile definire ogni anno, in ogni ufficio giudiziario d’Italia. Un’operazione di verità che, un tempo, avrebbe scalfito la reputazione della giustizia italiana, ma che dopo il crepuscolo correntizio degli ultimi tempi non farebbe precipitare di molto il ranking delle toghe italiane. Ma piuttosto che fissare date, quantità, standard e obiettivi si preferiscono mete lasche, cifre autoprodotte dagli stessi magistrati che, a spanne, articolano previsioni o azzardano obiettivi di fatto pressoché irraggiungibili e comunque poche volte davvero raggiunti.

Il Csm se ne è reso conto e ha da poco predisposto un giro di vite su questo singolare profilo dell’organizzazione giudiziaria italiana che vede il ministero della Giustizia e lo stesso Parlamento, a oggi, del tutto esautorati dalla possibilità di interloquire, incidere o anche solo apprendere quale sia la produttività presumibile della macchina giudiziaria che pure ha a che vedere con la vita di milioni di cittadini e segna il destino di ricchezze complessivamente enormi, incagliate per anni nelle aule di giustizia. La giustizia italiana è, da questo punto di vista, una monade priva di interlocuzioni formali con la società e con la restante parte delle istituzioni del paese. La gente ovviamente non può evitare questo pantano – perché ha una controversia con un vicino o perché un pubblico ministero vuol conto di un certo fatto – e una volta inglobata nel sistema come utente o come imputato non riesce a svincolarsene se non a patto di lunghi sacrifici e di una estenuante pazienza.

La struttura giudiziaria chiede da sempre risorse, ma non è disponibile a negoziare né ad ammettere alcuna cogestione nella propria organizzazione, né vuol patire controlli su questo punto che non siano quelli affidati agli stessi chierici, in genere benevolenti. Il tutto in nome di un’autonomia e di un’indipendenza certamente intangibili nelle decisioni, ma che non riguardano la dimensione organizzativa che la Costituzione affida al ministro della Giustizia (art.110). Da questo versante le varie Commissioni ministeriali, a quanto è dato sapere, hanno partorito poco o nulla. Come l’apparato sia organizzato al proprio interno resta questione che non può e non deve interessare ad alcuno. Certo i capi degli uffici predispongono puntigliosi programmi organizzativi, fissano obiettivi, segnano traguardi, tracciano tabelle. Sulla carta tutto è chiaro. Poi “Il Sistema” ha fatto comprendere a chiunque che tutto questo non importa nulla, che i risultati non li misura davvero nessuno anche perché troppe volte nessuno lo saprebbe fare, che tra autorelazioni e autopromozioni tutto viene presentato e impreziosito nel migliore dei modi, che i curricula sono carta straccia che neppure viene letta, che basta avere un buon aggancio correntizio e lodi e peana si innalzano al cospetto del più modesto degli inquirenti o del più sciatto dei decidenti.

Tanto chi può dire se a sbagliare sia stato il pubblico ministero o il giudice, chi può dopo anni tracciare il redde rationem su un’indagine o su una sentenza. I tempi enormi della giustizia sono diventati il modo migliore con cui annacquare, diluire e occultare errori, neghittosità, incapacità. Se un processo civile o penale dura 10 anni nessuno potrà mai stabilire dove si sono annidati i ritardi e dove stiano le colpe; spesso i giudici sono altrove o sono addirittura in pensione. Se gli arresti sfumano in assoluzioni chi potrà mai risalire, dopo anni, la catena delle responsabilità e dire dove si era sbagliato. Ora l’idea di riversare in questo confuso cosmo le risorse ingenti del PNRR rischia di non porre rimedio a sprechi e guasti. Se non si stabilisce e si esige in modo certo quale sia o, meglio, quale debba essere la produttività equa e ragionevole dell’officina giudiziaria, non v’è alcuna possibilità di migliorare l’efficienza del sistema che potrebbe momentaneamente avvantaggiarsi di innesti ed energie provenienti da migliaia di neolaureati e precari, ma che non porterebbe a soluzione i propri limiti.

Nelle polemiche in corso sulla prescrizione, e nel dibattito semiclandestino sulla necessità di una amnistia, manca del tutto la considerazione di quanto rilevante sia il problema dell’organizzazione giudiziaria. Qualcuno ha rispolverato di recente la vecchia questione della geografia delle sedi, del loro numero e delle dimensioni asfittiche di molte tra esse, segnando però una traiettoria insufficiente e parziale. Così come asfittica è la vetusta proposta di un city manager per le cittadelle giudiziarie quasi che il problema sia quello di collocare al meglio il pochissimo personale amministrativo che regge un carico enorme di lavoro. È indispensabile invece affondare le mani nel modo in cui le procure, i tribunali o le corti sono organizzate, fissare standard quantitativi vincolanti, prevedere carotaggi stringenti sulla qualità delle indagini e delle sentenze.

Prescrizione, rimodulazione dell’obbligatorietà dell’azione penale o amnistia stanno pur sempre alla periferia di questa complessità. Sono il modo con cui la politica – dall’esterno ancora – tende a porre rimedio alla lentezza dell’apparato, alle sue inefficienze e all’ingiustizia delle sue lungaggini. Ma così facendo il decisore percorre pur sempre una strada antica e si sottrae al dovere di stabilire, o almeno di pretendere che si misuri, la reale capienza della macchina giudiziaria per dettare con serietà i tempi del processo e pretenderne davvero il rispetto nell’interesse di tutti e non a colpi di prescrizione.