Matteo Salvini, dopo 8 ore di camera di consiglio, è stato assolto dalla seconda sezione penale del Tribunale di Palermo perché “il fatto non sussiste”. L’accusa aveva chiesto 6 anni di reclusione. Sul versante della comunicazione, la notizia è del tipo di quella “dell’uomo che morde il cane”.

Non possiamo negare infatti che, secondo l’andazzo del “politicamente corretto” (un concetto che non coincide con quello del “fare giustizia”) dei nostri tempi, c’era da aspettarsi una sentenza di condanna. Oltre al fatto in sé – nella gestione del quale il leghista aveva dato prova di un particolare accanimento per motivi di propaganda politica – a sfavore del ministro giocava l’atteggiamento arrogante con cui aveva preso parte al processo, promuovendo manifestazioni e sollecitando solidarietà di dubbio gusto e di esclusiva natura politica. E rilasciando inopportune dichiarazioni sopra le righe, tanto da far ritenere che il suo obiettivo fosse quello di essere condannato “per aver difeso i confini”, minacciati da 147 morti di fame.

Pur non essendo ora in grado di valutare le motivazioni giuridiche che hanno indotto la Corte a una sentenza di assoluzione, bisogna riconoscere che i giudici di Palermo (la sede del processo merita una particolare sottolineatura) hanno dato prova di grande coraggio per non essersi lasciati condizionare da un’opinione pubblica in prevalenza (colà dove si puote ciò che si vuole) ostile al leader della Lega e con buoni motivi, sia di carattere generale sia nel caso specifico.

A pensarci bene, non è la prima volta che la magistratura giudicante demolisce – senza alcun riguardo – i teoremi delle procure. I casi sono tanti e di grande rilievo: dalla trattativa Stato-mafia all’accusa di corruzione internazionale nei confronti dell’Eni. Ma non ci sono solo le indagini e i processi che coinvolgono personaggi noti e famosi (come da ultimi i casi Esposito e Renzi). Spesso la macchina della giustizia penale gira a vuoto anche quando la dea bendata se la prende con “l’uomo della strada”. Quasi il 64% dei procedimenti che escono dalle Procure dopo la fine delle indagini preliminari non va a giudizio, ma viene archiviato. Si tratta di quasi 430mila fascicoli, secondo i dati forniti dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, durante l’inaugurazione del nuovo anno giudiziario.

Una spia di malessere, soprattutto se letta insieme alla percentuale di assoluzioni in primo grado, pari a quella delle condanne (46%), o superiore per i reati considerati “minori” (come furti, spaccio, risse, truffe), ma molto diffusi e di forte impatto sulla vita delle persone. In Italia il Parlamento si è trovato nella necessità, apparentemente paradossale, di abrogare l’abuso d’ufficio per impedire che le procure se ne avvalgano pretestuosamente come reato civetta. La Corte di Cassazione ha dimostrato equilibrio anche quando ha stabilito che i giudici non possono “sostituirsi” al ministro degli Esteri nell’individuazione dei paesi sicuri in cui rimpatriare i clandestini, fatte salve le situazioni specifiche di singole persone che potrebbero essere in pericolo anche in un paese ritenuto sicuro.

In sostanza, se ci si accontenta dei tempi lunghi della giustizia, non si può dire che la magistratura giudicante sia priva di quel requisito di terzietà indispensabile nel procedimento penale di carattere accusatorio. Il problema sta nell’apparato mediatico deviato che – su input delle procure – alimenta quel processo pubblico che di per sé è già una condanna della persona indagata, sbattuta in prima pagina come se fosse accertata la sua colpevolezza. Il processo mediatico è divenuto una procedura parallela volta a fornire sostegno alla magistratura inquirente e ai suoi teoremi, in piena violazione del carattere del pm. Una figura che, in quanto magistrato, non ha il compito di portare alla condanna dell’imputato ma di accertare i fatti nello stesso interesse della persona indagata.

Le normative che regolano l’uso e la diffusione delle intercettazioni telefoniche trascritte, che sono divenute uno strumento fondamentale di indagine (basta leggere un’ordinanza qualsiasi che risulta essere una narrazione del teorema del magistrato inquirente, sostenuto da qualche frase virgolettata dell’indagato desunta da un’intercettazione), intervengono su aspetti delicati non sempre conciliabili come la libertà di stampa e la presunzione di innocenza. Sarebbe il caso, allora, di promuovere un codice di autoregolamentazione da parte degli ordini e delle associazioni che operano nel settore dei media, sotto la vigilanza di una sorta di Giurì che vigili sul rispetto delle regole.

Quanto alla magistratura inquirente, si potrebbe fare tesoro di ciò che diceva Piercamillo Davigo – ancora folgorante in soglio – a proposito del rapporto tra magistratura e politica: sia quest’ultima a fare pulizia al proprio interno per evitare che la magistratura sia costretta a occuparsene. Perché questa raccomandazione non dovrebbe valere anche per l’ordine giudiziario? Anziché perseguire complicate revisioni costituzionali (che non garantiscono il contrasto di settori “deviati” della magistratura), basterebbe una norma da inserire nel codice di procedura penale, che renda obbligatorio il rinvio a una diversa procura degli atti di un procedimento che si risolve in via definitiva con un’assoluzione con formula piena. Il rinvio dovrebbe accertare se nella linea di condotta del pm vi sia stato dolo o colpa grave, le due fattispecie nelle quali un magistrato è chiamato a rispondere.