Grande è la confusione sotto il cielo, in questi nostri tempi agitati. Un caso manifesto di confusione è l’uso approssimativo di alcune parole. Per esempio progressismo e progressisti. Dovrebbero essere definizioni politiche; ma sembrano servire più a sfumare che a definire. Si dice progressista pudicamente, per non dire di sinistra, e anche per indicare qualcosa che in fondo è un po’ di sinistra ma non troppo. Pensiamo alla definizione (e talvolta autodefinizione) dei 5 stelle come progressisti. Che vorrà mai dire? Certo, sono sensibili alle difficoltà dei più poveri: la volevano addirittura abolire, la povertà! Sono pacifisti, cioè poco sensibili alle ragioni della resistenza ucraina e contrari all’aumento delle spese militari; sono anche equidistanti tra Biden e Trump, in prudente attesa delle elezioni americane. Hanno una concezione dell’intervento statale che si riassume nel superbonus: elargizione a pioggia di denaro pubblico – cioè dei contribuenti – senza guardare dove arriva, foss’anche a proprietari di ricche ville.

Sono giustizialisti e moralisti, in una versione estrema che confonde la moralità della politica con uno spirito volgarmente giacobino, o violentemente populista. Sono, a occhio, nemici della destra, sebbene abbiano fatto, forse senza accorgersene, un governo con Salvini. Aggiungiamo che sono in generale nemici del Partito democratico, considerato, come il loro leader Conte ha chiarito negli ultimi giorni, un partito corrotto, governativo a tutti i costi, dominato da cacicchi e capibastone.
Ecco dunque che si capisce l’utilità della etichetta di progressismo: serve a nascondere la distanza dei 5 stelle dal Partito democratico, che, pur con tutti suoi limiti e le sue ambiguità, ha tuttavia una definizione netta: è un partito di sinistra, o al più di centrosinistra. Un mantello che copre la reale incomunicabilità trai due soggetti, che si vorrebbe superare d’un balzo in base al principio che “solo uniti si vince”. Ed è vero naturalmente. Uniti si vince (forse); divisi si perde (sicuramente). Ma questa apparentemente scontata verità è a sua volta confusa: confonde il mezzo con il fine. Vincere è il mezzo necessario, ma il fine è governare: avviare le riforme che costituiscono il profilo autentico del progressismo.

La vittoria dura un giorno, il giorno delle elezioni; il giorno dopo comincia il difficile percorso del governare. Come dobbiamo immaginare un governo di Pd e 5 stelle? Come una riedizione del secondo governo Conte? No, sarebbe anche peggio: una nuova frontiera del populismo. E, dobbiamo pensare, un conflitto interno continuo. Non sarebbe nemmeno sufficiente un patto alla tedesca tra le due forze. Anzitutto perché non siamo tedeschi, ma eredi della speciale inaffidabilità che è sempre stata tipica della nostra politica. Pensiamo com’è finito il patto con Bertinotti, ricordato nei giorni scorsi da Parisi. Poi perché i tempi non consentono la inevitabile area di ambiguità che avvolge qualunque patto. È tempo di decisioni difficili, di assunzioni di responsabilità, come quella di aumentare le spese militari per aumentare l’autonomia dell’Europa. È facile capire che una alleanza tra Partito democratico e 5 stelle non potrebbe reggere a questo passaggio.

Si tratta dunque di riavvolgere il nastro. Cominciare dall’inizio, non dalla fine. Nessuno sottovaluta il tema delle alleanze. Ma prima viene un altro tema, che è quello della identità, cultura politica, base sociale di un partito. Prima di affermare di essere testardamente unitaria, la segretaria Schlein, e con lei il gruppo dirigente, dovrebbe informarci su che cos’è questo Partito democratico, quale la sua visione, quale il suo progetto. Come vede la società italiana e dove vorrebbe spingerla; come vede l’Europa e come vorrebbe riprogrammarla. Quali sono le sue idee sulle grandi trasformazioni che il mondo sta vivendo. Allora sì, il termine progressista ritroverebbe il suo significato, che non è in nessun modo applicabile a Giuseppe Conte e al suo movimento. Il progressista è qualcuno che parte dall’analisi della realtà per trasformarla. Non è necessariamente un socialista, ma lotta per la giustizia sociale; è un riformista, perché pensa che il mondo non sia perfetto e non possa mai diventarlo, ma che una politica di riforme possa aumentare la quantità di giustizia, di libertà e di benessere per chi lo abita.

Poi le proposte si declineranno sulla base delle situazioni; ma nel quadro di scelte politico-culturali di fondo. E in questo quadro dovrà essere affrontata anche la questione delle alleanze, senza automatismi o riflessi condizionati. Non è detto che il catalogo delle possibili alleanze resti sempre lo stesso. Uscire da questa specie di matrimonio indissolubile potrebbe aprire altre possibilità. Ma, soprattutto, se lavora su se stesso, definendo una credibile offerta politica, il Partito democratico potrebbe diventare molto più affidabile e quindi più attraente per gli elettori. A partire da una più forte identità e più sicura credibilità, potrà affrontare le alleanze finalmente in modo autonomo e non subalterno. Non sembra per ora intenzionato a farlo. Ma la via è questa, e non ce n’è un’altra.

Claudia Mancina

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