Vi sembrerà tutto distopico, ma è agli atti
Il prossimo G7 in Canada rischia di diventare G6: Trump e la solitudine di un numero primo

Nel 2025 il G7 compie cinquant’anni e si svolgerà in Canada: potrebbe essere – se stiamo ai fatti – l’ultimo nel formato che abbiamo conosciuto.
“I never found the companion that was so companionable as solitude”, scriveva Henry David Thoreau in Walden, celebrando una solitudine cercata, quasi mistica. Ma esiste – al negativo, se parliamo di politica – anche una solitudine ostentata, costruita per separazione e non per elevazione. È quella che Donald Trump ha incarnato nei consessi internazionali, e penso in particolare al G7, il vertice simbolo della cooperazione tra le grandi democrazie industriali.
Non a torto si dice che questo “formato” si sia, negli ultimi anni, logorato, almeno rispetto a quello più ampio del G20. Ma il prossimo meeting sarebbe un unicum, dal punto di vista storico – nel cinquantesimo anniversario della sua creazione – e, primariamente, geopolitico. Il summit è in programma a Kananaskis, proprio in quel Canada che Trump, provocatoriamente, vorrebbe annettere agli USA come cinquantunesimo stato. Immaginate la scena: il presidente americano allo stesso tavolo del premier Mark Carney, dopo aver “dichiarato” di volerlo defenestrare.
Vi sembrerà tutto distopico, ma è agli atti.
Per non parlare degli altri cinque Paesi (Regno Unito, Francia, Italia, Germania e Giappone) che, insieme al Canada, sono stati in pochi giorni “oggetto” della guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti. E che, pur cercando di mantenere una linea comune su clima, sicurezza, transizione energetica e sfide globali, si ritrovano con il settimo – ovvero gli Stati Uniti – intento a giocare una partita del tutto diversa, se non addirittura controvento. Già nel 2018, al vertice di Charlevoix, Trump mise in scena una delle più clamorose rotture diplomatiche della storia recente del G7: firmò un comunicato per poi smentirlo via Twitter, accusò Trudeau di “disonestà” e si isolò apertamente. Lo scatto simbolo fu quello diventato iconico: Angela Merkel chinata sul tavolo, circondata dai leader europei, mentre Trump siede a braccia conserte, sguardo impassibile. Quella foto – plastica, teatrale, definitiva – era già il ritratto di un G6 di fatto.
Il punto, però, non è solo la postura muscolare e caratteriale del presidente Trump: è la sua visione del mondo – non multilaterale né cooperativa, ma ipertrofica e predatoria – a isolarlo oggi. Una logica talmente oppositiva che il G7, per Donald, appare solo un impiccio, non un’opportunità. Le crisi belliche in Ucraina e in Medio Oriente hanno poi rafforzato l’idea degli Stati Uniti come “antitetici” rispetto agli altri membri del club, con la messa in discussione della NATO e delle intese globalmente sensibili (scambi commerciali, difesa dell’ambiente, solidarietà verso i Paesi poveri).
Chiamarlo G6, oggi, non è dunque solo una provocazione, bensì una possibile presa d’atto. Perché se la leadership americana si trasforma in isolamento strategico, il G7 non può che regredire in un vertice a geometria variabile: sempre più simbolico, sempre meno operativo, per non dire totalmente inutile, al netto della foto di rito. Ma allora si apre l’interrogativo più urgente: può esistere un G7 senza una vera presenza americana? E può l’Occidente sopravvivere senza una bussola condivisa, senza quella vocazione inclusiva che lo ha reso protagonista delle grandi scelte globali dagli anni Settanta in poi?
Il rischio non è solo la paralisi del G7, ma lo svuotamento della sua funzione storica: quella, cioè, di coordinare una visione comune in tempi di frattura interna alle democrazie occidentali. Queste settimane d’inizio del secondo mandato di Trump sono già entrate nei libri di storia e ci suggeriscono la necessità di prendere consapevolezza di un nuovo mondo. Nel frattempo, forse è bene cominciare a prepararsi all’eventualità: un tavolo a sei, più una sedia politicamente vuota – quella americana.
La solitudine di un numero primo.
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