Il Pulcinella di Pesce visto da 6 napoletani ‘emigrati’: da “cosa c’è di osceno in un fallo” a “Napoli ferma a identità di 40 anni fa”

Cosa pensano dell’opera di Gaetano Pesce, Tu si ‘na cosa grande’, installata in piazza Municipio a Napoli, sei ragazzi andati via dalla città: un quadro tutt’altro che appiattito sulla narrazione social.

Da napoletana a universale, l’opera simbolo dell’amore

Giovanni Negri – Bella, allegra, colorata, vorticosa e travolgente “Tu si ‘na cosa grande” di Gaetano Pesce mette il buon umore, come non accade mai con l’arte contemporanea. Eppure il maestro genovese, morto a New York, non trascura la sofferenza, l’espiazione e la catarsi: nel 2019, espose a Milano “Maestà Sofferente” e “L’Uomo Stanco”. L’opera di Piazza Municipio è per Napoli, così la città si fa concetto, espressione di un pensiero eterno e Pulcinella non è napoletano, ma universale. Due cuori innamorati e un collo di camicia aperto, teso verso il cielo, sono l’espressione di un estro eruttivo, gioioso, rubicondo, picaresco e buontempone, proprio come è l’artista. E se somiglia anche ad altro… questo è un “segreto di Pulcinella”. C’è da dire che comunica così bene con gli obelischi delle piazze napoletane: dalla guglia dell’Immacolata a quella di San Domenico e di San Gennaro, poi la più piccola di Portosalvo, fino al “Carpe Diem” del geniale Luigi Serafini a Materdei. Da chiedere al Comune di rifarla monumentale e lasciarla lì, per sempre, come simbolo dell’amore.

Bene l’arte pubblica ma non sia troppo “monumentale”

Roberto Calise – Che si parli di Napoli e d’arte è sempre un gran bene. La città vive una primavera dello spirito, è attrattiva in ogni senso, e il clamore attorno all’opera di Pesce lo dimostra. Da tempo non si vedevano siparietti di cittadini che dibattono, quasi come in un film di Luciano De Crescenzo. Continua l’usanza della cosiddetta “arte pubblica” che ormai caratterizza Napoli da quasi trent’anni, ossia opere esposte nelle strade. Per anni il palcoscenico è stato piazza del Plebiscito, scalzata di recente da piazza Municipio. Sotto le sindacature di Bassolino e Iervolino (il decennio di De Magistris non pervenuto, come su tutto) sono state esposte la montagna di sale di Palladino, le torri di Kapoor, le spirali di Serra, le “capuzzelle” di Horn, e altro. Tutte installazioni monumentali, pensate per uno spazio grande. Credo sia qui il tallone d’Achille dell’attuale rassegna, rilanciata con acume dal sindaco Manfredi. Sia la Venere di Pistoletto che il Pulcinella di Pesce sono copie più grandi di lavori già esistenti. Non pensate per uno spazio così ampio. Così si rischia di alterare il senso dell’opera, sgranarlo. In compenso, se ne aumenta la riproducibilità: un’ondata di meme e di ironia ha invaso i social e marchierà quest’operazione per anni. Che forse andrebbe ripensata, tornando a opere monumentali pensate appositamente per una piazza vasta.

Cosa c’è di osceno in un fallo? Lo sdegno nelle chat di famiglia

Ludovica Ciriello – Napoli oscena. Napoli per niente velata. C’è un fallo gigante in piazza Municipio. Aspetta, no. È Pulcinella. “Osceno, offensivo”, tuonano le zie nella chat di famiglia (la mia). “Serve una petizione per rimuoverlo”, aggiunge mia madre. Non la cittadinanza, non l’autonomia differenziata, no: firmiamo contro Pesce. Se l’arte è riproduzione fedele, va detto che questo Pulcinella non assomiglia ad un Pulcinella. Se invece pensiamo che l’arte crei bellezza, tocca dibattere su cosa sia bello e in base a quali criteri. Nella stessa piazza sorgeva maestosa una Venere degli stracci. Il suo gigantesco fondoschiena offerto ai passanti aveva indignato qualcuno. Certo non quanto il Pulcinella, s’intende. Perché un fallo è sempre un fallo e, nella scala di oscenità, pare che batta un culo. Per quel che vale, trovo belle le domande e mi piace quando è l’arte a suscitarle. Eccone una: “Zie amatissime, cosa c’è di osceno in un fallo?”. Messaggio inviato alla chat di famiglia. Me ne pentirò. Le risposte arriveranno numerose e severe. Ma lo considero un mio contributo all’arte. Intanto sullo schermo: sta scrivendo. È mia madre…

L’arte contemporanea stimolo per riflettere (e basta lamenti)

Serena Mazzei – A differenza dell’artista della Venere degli stracci, tutti ricorderanno Pesce e il suo “stupor mundi” da 10 milioni di visualizzazioni sui social. Prepotente e catchy, quest’opera ha attirato l’attenzione di un’intera città. Il suo grande merito è stato aprire un dibattito su cosa sia o non sia l’arte, avvicinando o addirittura introducendo i cittadini all’arte contemporanea. A me piace, e mi piace chi sa usare l’ironia e l’irriverenza per stimolare riflessioni colte. E proprio qui risiede la magia dell’arte: nella sua capacità di provocare una reazione, di suscitare domande e di portarci a guardare il mondo da prospettive diverse. Non è necessario che tutti capiscano subito un’opera, o che la trovino immediatamente gradevole. Ciò che conta è l’apertura a nuove idee, la disponibilità a lasciarsi coinvolgere e la voglia di esplorare l’ignoto. Oppure, semplificando, è fulmineo il commento di mio padre Alfredo: “Basta con questi boomer parrucconi che criticano e si lamentano di tutto”. Chissà se Pesce aveva davvero immaginato tutto questo…

Perché nessuno ha detto niente? Manca il dialogo con i cittadini

Luna Esposito – La domanda che più mi sono posta è come sia stato possibile che, tra tutte le persone che hanno esaminato l’opera per approvarne l’installazione, nessuno abbia detto: “Scusate, ma quest’opera non sembra un pene?” Questa domanda, o meglio la risposta, mi inquieta. Non ci sarebbe nulla di male se l’opera davvero rappresentasse un pene, ma sarebbe un problema se nessuno se ne fosse accorto o se si fosse fatto finta di nulla, approvandola senza spirito critico. È preoccupante pensare che manchi il confronto istituzionale, che nessuno si sia chiesto se potesse essere fraintesa. Un approccio superficiale che mi spaventa più dell’opera stessa, perché dimostra che certe decisioni vengono prese senza rifl ettere su come verranno accolte. Se qualcuno avesse invece sollevato il dubbio, perché non spiegare apertamente il motivo? Perché non dialogare con i cittadini, molti dei quali si sentono presi in giro? Non tutti, naturalmente, perché i partenopei sanno prendere molte cose con leggerezza. Ma installare un’opera ambigua, senza cercare complicità o coinvolgere il popolo che dovrebbe accoglierla, dimostra mancanza di visione, lungimiranza e attenzione verso i cittadini.

Napoli foresta vergine, la nostalgia è l’identità

Michele Vitiello – E se pure fosse un pene. Quale sarebbe la differenza rispetto al milanese dito medio di Cattelan, che irriverente saluta il palazzo della Borsa? Il senso è lo stesso, un simbolo fallico contrapposto al palazzo del potere, al Municipio che lo ha voluto e lo ha pagato. La non accettazione dell’autorità, la regola non come indirizzo di salvezza ma come gabbia di una – finta – libertà. La sfrontatezza è la cifra di Pulcinella, che al coltivare l’intelligenza ha preferito la furbizia. Il servus callidus che teatralizza la vita, con una maschera dai tratti esagerati, per cui tutto è superlativo ma quello che conta è la superficie, perché nasconde una normalità deludente. Allora la stazione più bella del mondo, ma i treni non passano. La Capitale del turismo, ma i taxi ti fregano. La città dell’intraprendenza, ma devi emigrare. E possiamo continuare, perché l’una non nega l’altra. Napoli è capitale ma capitale di contrasti e, come in tutti i luoghi di confine, qui nascono le innovazioni, le sintesi mai provate. Forse è proprio il male di Napoli che fa venire voglia di produrre il bene, se non ti lasci inghiottire dalla “napoletanità”, da quella Foresta Vergine di cui scriveva La Capria. Eppure di quel Pulcinella a me non dà fastidio la forma. Dovremmo fare pace con il sesso, con i corpi, con la merda, con tutto quello che è natura di cui ci vergogniamo. Staremmo tutti meglio. A me dà più fastidio la scelta dei colori: quel mix tra il rosa, il verde e l’arancione, che va in contrasto col moderno e minimalista bianco dell’opera di Pesce. Quella scelta cromatica fa molto anni ‘80, quasi inizi ‘90, epoca di feste coi panini al latte pieni di burro e salame, e riporta la città all’unico momento della storia recente in cui ha sentito forte la sua identità, con i miti del calcio, dell’arte e della politica. Ecco, una città ferma nella sua identità a quel periodo, di quarant’anni fa, che non è riuscita a emanciparsi per crearne una nuova, mentre nel resto del mondo si progetta la vita su Marte. Questo mi dà fastidio. Il resto è bigottismo e ipocrisia.