Carlo Alberto Giusti, Magnifico Rettore dell’Università degli studi Link Campus di Roma, vive tra gli Stati Uniti e l’Italia e conosce da vicino le spinte che muovono la Casa Bianca.

Siamo al Liberation Day. Ma c’era davvero bisogno di nuove guerre commerciali?
«L’esigenza di riequilibrare la bilancia commerciale c’era. Tutte le dichiarazioni di Donald Trump in campagna elettorale lo preannunciavano: insieme a Vance ha impostato tutta la campagna elettorale sull’esigenza di riconquistare gli spazi industriali e commerciali persi durante l’amministrazione democratica. Questo riposizionamento anche commerciale è stato inteso all’inizio come mera ricollocazione degli Usa negli scenari di guerra, e penso in primis alla crisi ucraina, poi al Medio Oriente. L’opinione pubblica si era concentrata sugli aspetti di geopolitica e aveva messo in secondo piano i dazi e il riequilibrio della bilancia commerciale. Che però nell’agenda tornano a essere prioritari».

Anche perché quelle soluzioni nei teatri di guerra, prospettate come immediate, segnano il passo…
«Per l’Ucraina il rappresentante di Trump era il generale Keith Kellogg, uno dei pochi ammessi sul campo da golf di Mar-a-Lago. Per il Medio Oriente l’interlocutore era Marco Rubio, il segretario di Stato. Entrambi sono stati sostituiti d’emblée con il suo amico immobiliarista newyorchese Steven Witkoff. Quando si iniziano a cambiare gli uomini, significa che deve cambiare la strategia ed evidentemente le risposte che il presidente Trump si aspettava non sono arrivate. Molti hanno sottovalutato il posizionamento nuovo che riguardava l’economia».

E perché, a suo avviso? Hanno preferito aspettare di leggere con maggiore stabilità la strategia di Trump?
«Non ci si immaginava che, al netto dei dossier sull’immigrazione e sul contrasto alla criminalità, la vera e propria battaglia di Trump sarebbe stata sulla bilancia commerciale. È qui che si va basando la scommessa del quarantasettesimo presidente. Trump ha portato avanti una linea sottoscritta da Scott Bessent, il sottosegretario di Stato al Tesoro, che si fonda sul cosiddetto Mar-a-Lago accord».

Che cosa prevede?
«È un paper che è stato scritto per lo più dall’economista Steven Miran, professore della Boston University, l’ideologo che ha convinto Trump a rifondare i suoi rapporti economici sulla contrapposizione. Far rientrare le produzioni esportate e aumentare i dazi su tutto. Le prime misure dovevano essere orientate su Canada e Messico, i confini più riconoscibili con l’elettore americano. E lo hanno fatto utilizzando uno stratagemma interessante: ha coniugato la necessità di imporre dazi con quella di controllare meglio i confini, riuscendo così a intercettare i prodotti chimici necessari a produrre il Fentanyl. La chiusura con il Messico figura così un vantaggio dal punto di vista della legalità».

E però c’è anche il fronte con l’Europa, che ci riguarda più da vicino.
«Nelle proiezioni di Trump aumentare i dazi sulle importazioni di automobili avrà come conseguenza l’aumento dei prezzi delle auto importate dall’Europa negli Usa. Questo dovrebbe convincere il consumatore americano a optare per automobili made in Usa. La componentistica prodotta in Messico e in Canada sarà coperta da una detrazione fiscale, così da risultare indenne da conseguenze dei dazi. Secondo i calcoli della Casa Bianca, questo porterà nelle casse americane una cifra compresa tra i 600 e i 1000 miliardi di dollari. È convinto che quella parte di elettorato benestante che lo ha votato continuerà a consumare, noncurante degli eventuali aumenti di prezzo, mentre una parte del suo elettorato non ha mai consumato prodotti alimentari di qualità importati dall’Italia e quindi non ne risulterà intaccato».

Una scommessa tutta da verificare, alla prova dei fatti.
«È una scommessa. Dietro questa teoria, che ha portato come output finale il convincimento di aumentare i dazi, c’è il deprezzamento del dollaro. A favore di cosa? Probabilmente della moneta digitale che potrebbe sostituire il dollaro come moneta di riferimento globale. E con il contestuale deprezzamento del dollaro verrebbe portato un eventuale ulteriore vantaggio all’economia americana. Siamo ancora nell’alveo delle ipotesi, e comunque i veri effetti non si vedranno il 2 aprile. Trump è stato eletto grazie all’appoggio di Wall Street e delle grandi major. È probabile che delle correzioni in corsa verranno prospettate dallo stesso Sottosegretario al Tesoro».

E adesso si parla però di rappresaglia, di contromisure…
«Sarebbe la scelta peggiore. L’Unione Europea ne uscirebbe sconfitta. Bisogna agire diversamente e scongiurare il muro contro muro».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.