Messo all’angolo, Gardini alla fine decise di vendere all’ENI la quota in Enimont e si dimise polemicamente da tutte le cariche che ricopriva in Italia, nominando il giovanissimo figlio Ivan presidente del Gruppo. Furono giorni molto difficili quelli, sia per lui sia per Ivan. Ricordo che spesso la domenica pomeriggio partivo da Linate e li raggiungevo a Roma nella sede della Ferruzzi-Montedison presso l’Ara Coeli, dove c’erano anche alcune stanze per dormire. Lì lavoravamo insieme a discorsi e progetti e poi dopo cena si discuteva a lungo di possibili nuove strategie. Ma il morale di entrambi era molto basso.

È un peccato che molti dei ricordi storici che riguardano Raul Gardini imprenditore si riducano, oggi, alla vicenda di Enimont e ai drammatici episodi che ne seguirono. In altri Paesi un gruppo come la Ferruzzi-Montedison sarebbe stato giudicato un patrimonio nazionale da difendere e da valorizzare. Gli Stati Uniti, ad esempio, normalmente fanno così. Tanti tycoon dell’odierna economia americana sono partiti da poco più che dei garages o tramite avventurose start up. Ma, grazie ad un ambiente istituzionale, politico, finanziario e fiscale favorevole, hanno potuto creare delle multinazionali che oggi dominano i mercati mondiali e le filiere dell’innovazione tecnologica. In Germania i grandi gruppi industriali storici dell’auto, dell’elettromeccanica, della chimica e della farmaceutica sono sempre stati considerati dei patrimoni nazionali strategici così come lo sono in Francia le grandi imprese del lusso o della microelettronica, quelle dell’energia, della farmaceutica, della cosmetica o dell’auto.

Con la successiva disintegrazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, si è perduta invece una fetta importante della storia e del potenziale di sviluppo economico del nostro Paese. Si sono disperse tutte le avanguardie della nostra chimica, che sin dai tempi della Montecatini era leader nel mondo, e aveva vinto anche un premio Nobel con Giulio Natta. E si è anche disperso lo straordinario patrimonio commerciale e agroindustriale creato in quarant’anni di lavoro in tutto il mondo dal fondatore della Ferruzzi, Serafino Ferruzzi, e poi da Gardini.

La vicenda giudiziaria su Enimont, che coinvolse il Gruppo Ferruzzi-Montedison in Mani Pulite e vide il triste epilogo prima del suicidio di Gabriele Cagliari (le cui lettere dal carcere sono una delle più drammatiche testimonianze di quegli anni) e poi di quello di Raul Gardini (un uomo che probabilmente si sentiva troppo libero e orgoglioso per poter passare anche una sola notte in prigione), portò alla perdita del gruppo Ferruzzi-Montedison stesso da parte della famiglia Ferruzzi e alla sua progressiva vendita a pezzi, una volta passato sotto il controllo di Mediobanca.

Qui l’imprenditore insieme
a George H. W. Bush
e Carlo Azeglio Ciampi

Come tutti gli uomini, Gardini ha anche commesso alcuni errori. E uno dei più gravi è certamente stato proprio quello di intestardirsi a voler conquistare Enimont a tutti i costi. Per di più in un Paese come l’Italia, stretto tra vecchi presunti “salotti buoni” della finanza che certamente non gli erano amici e un sistema politico “invadente” come pochi altri in economia. Tra l’altro, per guadagnare rapidamente somme di denaro da mettere sul piatto della bilancia dello scontro Enimont, in quei giorni Gardini si lanciò anche in una spericolata speculazione finanziaria sulla soia al Chicago Board of Trade, mal consigliato da alcuni nuovi traders francesi ed americani che lui stesso aveva promosso ai vertici del trading Ferruzzi, in discontinuità con gli uomini fidati della vecchia scuola di Serafino. L’operazione andò molto male, minò il prestigio della Ferruzzi negli USA e costò alle casse del Gruppo e della stessa famiglia Ferruzzi, secondo le cronache e i resoconti giudiziari dell’epoca, non meno di 300 milioni di dollari o forse di più (la cifra esatta non si è mai saputa).

Un altro errore di Gardini, forse dettato dall’esito frustrante della stessa vicenda Enimont, fu quello di voler costringere a tutti costi gli eredi Ferruzzi a mettere in pratica un passaggio generazionale anticipato che lui riteneva innovativo ma che, di fatto, avrebbe praticamente privato i figli di Serafino delle loro legittime quote azionarie di controllo. I cognati fino a quel momento non gli avevano mai fatto mancare il loro più totale appoggio, nemmeno nei momenti più difficili. Ma il suo irrigidimento su quel progetto di successione portò ad una rottura con Arturo, Franca e Alessandra Ferruzzi e con Carlo Sama, che nel frattempo aveva sposato quest’ultima. Ciò indebolì notevolmente il Gruppo e lo espose, nel pieno delle indagini della magistratura, all’attacco di Mediobanca che, di fatto, portò poi alla espropriazione della Ferruzzi-Montedison da parte di quest’ultima. Separandosi dai Ferruzzi, Gardini perse anche quella squadra di fedeli manager che avevano sempre lavorato con lui, da Picco a Ceroni, da Venturi a Trapasso e tanti altri, che decisero di rimanere nel Gruppo con gli eredi di Serafino, non riuscendo a comprendere le ragioni di quella separazione.

Invano, negli ultimi giorni prima dell’escalation di Mani Pulite, Carlo Sama, che era sempre rimasto in rapporti con Gardini, cercò con pragmatismo di progettare con Goldman Sachs un disegno di riunificazione dei gruppi Ferruzzi, Gardini e Cragnotti che avrebbe consentito di affrontare meglio le difficoltà che si stavano profilando all’orizzonte. Ma ormai era tardi e l’ondata di arresti del pool del tribunale di Milano era in arrivo.

Vale la pena di ricordare che il Gruppo Ferruzzi-Montedison era all’epoca più o meno indebitato come altre importanti realtà industriali italiane, cioè come Fiat o il Gruppo De Benedetti, ma a differenza di queste era largamente in utile ed estremamente solido dal punto di vista industriale. A maggior ragione, quello che è accaduto in seguito è semplicemente assurdo dal punto di vista dell’interesse nazionale. Infatti, il sistema politico-istituzionale-finanziario italiano ha colpevolmente assecondato la dissoluzione di un patrimonio industriale unico al mondo, quello del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che costituiva una delle poche realtà su scala globale che l’Italia abbia mai posseduto.

Benché avesse messo dei manager indubbiamente capaci a gestire le società ex-Ferruzzi-Montedison, come Enrico Bondi e Stefano Meloni, Mediobanca non sembrava avere un disegno industriale preciso per le realtà produttive di cui si era impossessata. Himont, leader mondiale nel polipropilene, fu venduta a gruppi stranieri. E, ironia della sorte, morto Enrico Cuccia nel giugno del 2000, la stessa Mediobanca che a suo tempo, approfittando dei giorni caotici di Mani Pulite, si era impadronita con un blitz dell’impero creato dai Ferruzzi e da Gardini, nell’estate del 2001 fu “scippata” della Ferruzzi-Montedison stessa, che nel frattempo era stata denominata Compart, con una OPA ostile guidata da Électricité de France e con il “tradimento” della vecchia e tradizionale alleata Fiat e di alcune banche italiane che appoggiarono quel colpo di mano contro via Filodrammatici.

Alla francese EdF, ovviamente, non interessava l’agro-industria dell’ex gruppo Ferruzzi, sicché successivamente Eridania Béghin-Say fu anch’essa venduta così come altre società chimiche residuali dell’ex Gruppo Montedison, mentre La Fondiaria sarebbe poi finita al Gruppo Ligresti. Ed è già tanto che EdF, un soggetto straniero, si sia poi dimostrata negli anni seguenti un azionista industriale valido per Edison, sostenendola sempre nei suoi investimenti in Italia e accompagnando i suoi manager fino ai successi recenti.

Ma il bilancio finale di tutte queste vicende per il nostro Paese è fallimentare. Perché con la fine di Ferruzzi e Montedison l’Italia ha perso per sempre la possibilità di essere protagonista in due settori strategici.

(4. Continua)