Si chiude una settimana di montagne russe per la politica europea a Bruxelles. Con il leader del Partito popolare europeo Manfred Weber coinvolto in un’inchiesta delle procure europea e belga, per l’uso di fondi pubblici che avrebbe usato per la campagna elettorale. Tuttavia non è la magistratura a impensierire il leader della maggioranza in Parlamento. Del resto, anche Ursula von der Leyen è nel mirino della giustizia. Il Pfizergate resta un dossier aperto per la Corte di Giustizia a Lussemburgo. Eppure the “Queen of Europe”, come Politico è solito indicarla, sembra non preoccuparsene più del necessario.

Orban a Tbilisi

È invece la politica pura ad attraversare una fase di montagne russe. È fisiologico, visto che si è in prossimità del voto di fiducia per la Commissione. Ma forse proprio per questo servirebbe un po’ più di cautela. Tanto più che, entro le prossime settimane, avremo un nuovo presidente Usa. E, di fronte a chiunque entrerà alla Casa Bianca, è meglio che l’Europa si presenti ben solida. Che cos’è successo invece? Che Orbán ha accusato Weber e von der Leyen di cospirare contro di lui. Si potrebbe dire che avrebbe dovuto aspettarselo. Nel momento in cui il leader ungherese, che è anche presidente di turno dell’Unione, va a Mosca a baciare la pantofola dello zar e poi a Tbilisi a riconoscere (motu proprio) la vittoria di Sogno georgiano, è naturale che la Ue lo sconfessi. Ora, di fronte all’idea che chissà cosa possa fare Viktor da qui alla fine del suo turno di presidenza (mancano due mesi), è naturale che le istituzioni a Bruxelles si proteggano. Se poi questo vuol dire cospirare, pazienza. Orbán se ne farà una ragione.

Le stoccate

Al tempo stesso però ci sono state le stoccate che il commissario al lavoro uscente, il lussemburghese socialista Nicolas Schmit, ha lanciato sempre a Weber e a von der Leyen. Ovvero che stanno portando le istituzioni sulla strada del presidenzialismo. Parole su cui vale la pena ricordare che Schmit era spitzenkandidat per i socialisti. È possibile che la sua uscita sia soltanto un sassolino nelle scarpe che lo sconfitto si è voluto togliere. Se però si somma al voltafaccia di Thierry Breton, viene il sospetto che qualche deriva di autoreferenzialità da parte della leadership ci sia. D’altra parte che male ci sarebbe? Tra un Parlamento sempre più polarizzato e un’eurocrazia arroccata su un decisionismo lontano dal voto popolare e dal contesto geopolitico ed economico in cui si trova l’Europa, l’emergere di un soggetto forte, un esecutivo, per parlar chiaro, potrebbe non essere un danno.

Maggioranza Ursula

D’altra parte, le cose non sono così semplici. Perché è vero che la “maggioranza Ursula” tiene, ma il Ppe sembra fare di tutto per sgretolarla. Da inizio settembre ha votato più volte insieme ai conservatori dell’Ecr e ai Patrioti. Ha fatto passare la risoluzione per riconoscere Edmundo González Urrutia come presidente legittimo del Venezuela. Posizione in linea con quella di molti governi latino-americani, ma anche degli Usa, contro il regime di Maduro e le sue elezioni fraudolente. Nobile iniziativa, che fa il paio con l’assegnazione del Premio Sakharov 2024, sempre a Urrutia. Viene però da chiedersi perché in questa cosiddetta “maggioranza Venezuela” non vi facciano parte i socialisti e i liberali, se non altro per amore della libertà a Caracas, bensì vi rientrino i Patrioti che sono amici della Russia di Putin, la quale a sua volta sostiene Maduro.

Teresa Ribera alla fine della lista

Sono giochi imperscrutabili della politica europea? Neanche più di tanto. Negli ultimi 10 giorni le previsioni del voto in Usa stanno tornando a dare per favorito Donald Trump. È quindi possibile che il Ppe abbia sentito l’esigenza di un riposizionamento last minute. L’ipotesi sarebbe confermata dal fatto che anche in un’altra occasione i popolari hanno votato insieme alle destre. Ovvero nella definizione del calendario delle audizioni dei candidati commissari. L’agenda ha previsto che Teresa Ribera sarà audita per ultima. Alla socialista spagnola, von der Leyen ha assegnato una vice presidenza esecutiva e due deleghe strategiche (clima e concorrenza). Se eletta, accorperebbe nel suo incarico poteri e risorse senza pari, gestendole con un approccio ben chiaro in termini di colore politico. Una previsione che non piacerà né ai conservatori né ai Patrioti e, molto probabilmente, nemmeno a molti popolari. Ecco perché metterla alla fine della lista. I giochi sugli altri commissari saranno fatti. A quel punto, il peso specifico di Ribera potrebbe rivelarsi ridimensionato. E questo andrebbe più in favore dell’industria e dell’agricoltura europee, invece che delle destre.