30 anni da Mani Pulite
Il risultato di Tangentopoli: 40 suicidi e centinaia di innocenti incarcerati
Mani Pulite e Mani Sporche. Tutto sta a intendersi, per giudicare questi trent’anni, quelli che ci separano da un piccolo episodio che creò una grande valanga politica, un colpo di Stato senza armi. Ma con il sangue, quello dei morti suicidi, da Sergio Moroni a Gabriele Cagliari e gli altri quaranta. Le vittime di quella rivoluzione che assunse un nome da Stato Etico, quello di Mani Pulite. Il contraltare di chi aveva invece le Mani Sporche. La storia la scrivono i vincitori, questo lo si sa. Ed è chiaro che da quei due anni tremendi che furono il 1992 e il 1993, quelli delle bombe con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e in contemporanea le inchieste di Tangentopoli, chi uscì con le ossa rotta fu la Politica.
Cinque partiti che avevano governato l’Italia per quarant’anni, distrutti. E il partito forte dell’opposizione di sinistra, il Pci, colpevole come gli altri ma salvo perché complice dei pubblici ministeri e traditore dei sodali con cui aveva sempre spartito il “bottino”. Che poi bottino non era, ma finanziamento illecito. Tutto era partito da Milano, da quella che diventerà proprio allora la procura più famosa e vezzeggiata d’Italia e che oggi piange le proprie macerie. E proprio a Milano i due tesorieri della Dc e del Pci avevano illustrato ai magistrati il meccanismo del trenta per cento nella spartizione delle tangenti che gli imprenditori pagavano alla politica sulle grandi opere. Avevano anche spiegato che nella quota destinata al Pci, due terzi andavano nelle casse della segreteria nazionale occhettiana e un terzo era destinato alla minoranza “migliorista”. Questa parte del finanziamento illecito dei partiti rimase però in ombra, per motivi generali (ai magistrati era utile avere un partito importante che appoggiava la loro inchiesta) e anche relativi all’impronta di sinistra dei principali uomini del pool.
Bettino Craxi, che era un grande statista e uomo di governo, ci aveva provato, con il suo appello in Parlamento, a trovare una soluzione politica. Ma era necessario che tutti i partiti che erano stati complici nella spartizione e i cui bilanci erano falsi o falsificati, trovassero il coraggio e la forza per una pubblica comune dichiarazione di responsabilità e un comune programma di svolta. Prevalsero la vigliaccheria e la speranza da parte di alcuni di potersi appropriare delle spoglie dei partiti in via di distruzione. Anche questo fu uno degli aspetti della debolezza della politica. Che accettò di essere definita come il soggetto delle Mani Sporche, tanto da rinunciare all’unico contrappeso che la Carta dei Costituenti aveva previsto a bilanciare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, cioè l’immunità parlamentare.
Fu quello il vero momento della sconfitta. Anche perché, sopra il cadavere dei partiti affondati le acque si erano chiuse, creandone la tomba. Toghe, imprenditori e giornali avevano stretto la politica a tenaglia. I ministri della Giustizia caduti come birilli, ogni tentativo di riforma spazzato via dal broncio dei pm, mentre i quotidiani con i loro proprietari beneficati da accordi di alto livello erano diventati i servi muti di ogni sospiro di Borrelli o D’Ambrosio. Di conseguenza pareva normale il fatto che Romiti e De Benedetti avessero evitato le manette e se la fossero cavata con la presentazione di memoriali, mentre la stessa cosa non fu concessa a Raul Gardini fino al suo suicidio. E altrettanto normale parve il fatto che mentre il gallo (il padrone) faceva chicchirichì, al Palazzo di giustizia di Milano le galline (i cronisti giudiziari) rispondessero coccodè in girotondo intorno al pool di piemme, anche loro ormai organizzati in piccolo pool, con le magliette che inneggiavano a Di Pietro e la bottiglia in frigo per brindare alla prima informazione di garanzia nei confronti di Craxi. Così, di normalità in normalità alle Mani Sporche della politica si rispondeva con le Mani Sporche di Mani Pulite.
Era Mani Sporche violare i principi della libertà personale e del diritto di difesa, del principio del giudice naturale e della competenza territoriale, della presunzione di non colpevolezza. Era Mani Sporche l’uso della custodia cautelare in carcere. Per chi è entrato a San Vittore in quei giorni e ha visto l’ex ministro di giustizia Darida, persona per bene che, proprio come Cagliari, alla vista del parlamentare diceva di non preoccuparsi per lui ma per i tanti ragazzi buttati lì come bestie. O l’assessore regionale Serafino Generoso in sciopero della fame, arrestato due volte e due volte assolto. Perché c’era l’ossessione: devi parlare, devi fare i nomi, parlami di Craxi. Quello era il clima, peggio che nei processi di mafia o di terrorismo. I procuratori volevano i nomi, i nomi. Craxi, Craxi. Anche questo era Mani Sporche.
Ma ancora non ci siamo, visto che proprio ieri il Corriere della sera dava i numeri (un po’ strampalati, in verità) per dimostrare che con Mani Pulite i condannati erano tanti e gli assolti pochi. Come se il problema fosse solo quello. Come se non sapessimo che ben pochi giudici avrebbero avuto in quegli anni il coraggio di mettersi contro i capitani coraggiosi con le Mani Pulite. Ma perché non parliamo anche delle Mani Sporche che hanno violato le regole? Perché almeno uno dei quattro (Davigo, Di Pietro, Colombo, Greco) che andarono in tv a dire che si sarebbero dimessi perché con il decreto Biondi non avrebbero più potuto arrestare, non spiega oggi quel che successe dopo? Cioè dopo che riuscirono a far ritirare dal governo Berlusconi il decreto, come mai di tutti quelli che erano stati scarcerati loro ne rimisero in prigione meno del dieci per cento? Anche questo è Mani Sporche.
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