Torna in sala uno spettacolo molto caro al Teatro Tram di Napoli: da giovedì 9 a domenica 19 marzo va in scena “Artemisia”, testo e regia di Mirko Di Martino e l’interpretazione di Titti Nuzzolese e Antonio D’Avino.

Una pièce che ha visto il suo esordio nell’ottobre 2014 nell’ambito del Forum internazionale delle Culture, al quale sono seguiti tre anni di repliche tra la Chiesa di San Gennaro all’Olmo, dove lo spettacolo è stato protagonista durante il Maggio dei monumenti, e il Teatro Tram di Port’Alba. 

Una rappresentazione divenuta ormai iconica, prodotta da Teatro dell’Osso, che racconta la vita di Artemisia Gentileschi, artista seicentesca che amava definirsi una “pittora”, forte del suo senso di giustizia sociale e di identità femminile. Un’identità che venne violata da un episodio di violenza che vide protagonista Artemisia, figlia dell’artista Orazio Gentileschi: nel 1612, infatti, il pittore Agostino Tassi, amico e collega del padre, la violentò nella sua casa romana. 

Lo spettacolo non è una narrazione puramente biografica, quasi documentaristica, della vita di Artemisia. Al contrario, la figura della pittrice è inserita in un contesto simbolico, sospeso tra realtà e illusione, tra peccato e colpa, tra spiritualità e passione, dove emergono le paure, i dubbi, le ansie, di una donna che volle affermare la propria indipendenza in un contesto dominato dai maschi, com’era l’arte del Seicento in Italia. 

Napoli, 1653: Artemisia Gentileschi si trova in casa sua al cospetto di un giudice che, senza alcuna spiegazione apparente, la obbliga a raccontare ancora una volta i particolari di quel giorno. La donna credeva di aver chiuso i conti con quella storia al termine del processo che condannò Agostino Tassi per stupro, ma scopre adesso che tutta la sua vita e la sua stessa opera ne sono state segnate troppo in profondità. 

Il giudice, un po’ alla volta, assume i ruoli delle figure maschili che hanno condizionato la vita della pittrice: suo padre e l’autore dello stupro, ma anche quella di un predicatore che, attraverso la rievocazione delle scene bibliche narrate nei dipinti di Artemisia, obbliga la donna a confrontarsi con le sue paure, i suoi dubbi, i suoi desideri di gloria, di affermazione di sé come artista prima che come donna.

La vita e l’opera di Artemisia Gentileschi sono profondamente legate, o almeno lo sono per noi, che abbiamo inserito la figlia di Orazio Gentileschi tra i grandi della pittura solo molto di recente, recuperando innanzitutto la sua figura come uno dei primi esempi di femminismo. Lo spettacolo è anche il racconto di un caso famoso di violenza sulle donne avvenuto in una società molto diversa dalla nostra ma che, tra le righe, lascia intravedere molte somiglianze con i pregiudizi e i limiti che ancora ruotano intorno alla condizione femminile. 

“Lo spettacolo porta in scena una riflessione universale sul valore dell’arte, sul suo legame con la vita, sulla capacità dell’arte di sostituirsi ad essa – spiega Mirko Di Martino -. Artemisia sente di aver sacrificato tutto all’arte: giunta al termine della vita, è obbligata a chiedersi se ne sia valsa la pena. In un mondo dominato dai maschi, scopre che le è preclusa ogni libertà e autonomia. Perfino la sua arte viene interpretata come un continuo ritorno sul tema della violenza e della vendetta, dello stupro e della castrazione. Artemisia credeva di essere diventata libera grazie all’arte, adesso scopre che era la sua prigione”.

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