Il risultato elettorale si presta ad alcune primissime considerazioni sotto il profilo parlamentare ed istituzionale. In primo luogo la crescita dell’astensionismo elettorale. Per quanto preannunciato, non può non destare preoccupazione in chi ha a cuore le sorti della democrazia il fatto che su 46.127.514 elettori residenti in Italia abbiano votato in 29.480.094 (pari al 63,91% contro il 72,94% del 2018: – 9,03%). Ciò significa che più di 4 milioni di italiani che avevano votato nel 2018 non l’hanno fatto nel 2022. Certo, tra questi ci sono coloro che, pur volendolo, non hanno potuto votare: i fuorisede per motivi di studio e di lavoro, ai quali il Ministero dell’Interno ha negato il voto per corrispondenza, cui invece hanno potuto ricorrere i residenti, anche temporaneamente, all’estero (4.741.790): un paradosso ai limiti dell’incostituzionalità, spia della debolezza della politica di fronte alla burocrazia; ad essi vanno affiancati i disabili e gli anziani con serie difficoltà motorie, nonostante si sono introdotte misure atte ad agevolarne il voto, anche ricorrendo al voto a domicilio o in altra sezione.

Ma è ragionevole presumere che i più, pur potendo, non hanno votato. Del resto che si tratti di un non-voto di protesta lo dimostra il fatto che l’astensionismo è più diffuso nelle regioni meridionali, tutte sotto la media nazionale (con il dato più basso del 50,8% in Calabria). Questo dato va ricordato perché le percentuali di voto sono calcolate non sugli aventi diritto ma, giustappunto, sui votanti. Quando si dice, dunque, con semplificazione tipicamente populista, che gli italiani hanno scelto il centrodestra bisognerebbe ricordarsi che i 12,1 milioni di voti ottenuti costituiscono il 43,89% dei votanti ma appena il 26,3% degli elettori. Ed ovviamente il dato riguarda tutti i partiti. D’accordo: gli assenti hanno sempre torto. Ma non ci si può rassegnare a questo costante declino, magari giustificandolo guardando alle altre democrazie europee all’insegna del mal comune mezzo gaudio. Piuttosto, bisognerebbe sempre ricordare a chi domani rivendicherà pieni poteri in forza del preteso mandato ricevuto dagli italiani che in realtà i vincitori rappresentano poco più di un loro quarto e che quindi dovrebbero avvertire quel senso del limite nell’esercizio del potere che peraltro la Costituzione impone. Lo scriviamo perché, sulla base delle posizioni espresse e delle proposte (anche costituzionali) depositate nella scorsa legislatura, i prossimi potrebbero essere mesi in cui i limiti costituzionali (a cominciare ovviamente dal rapporto con l’Unione europea) saranno sottoposti a tensione, con inevitabile sovraesposizione di quegli organi di garanzia – Presidente della Repubblica e Corte costituzionale – chiamati per Costituzione a presidiarli.

In secondo luogo, si conferma per l’ennesima volta che i partiti nati in corso di legislatura per iniziativa parlamentare alla prova delle urne non hanno equivalente seguito elettorale. Dai tempi di Futuro e Libertà di Fini e del Nuovo centro destra di Alfano fino ad arrivare agli attuali Insieme per il futuro di Di Maio (ben 50 deputati e 11 senatori) e Coraggio Italia di Toti e Brugnaro (e chissà quale sarebbe stato il risultato di Italia Viva se non si fosse alleata con Azione) i gruppi parlamentari e le componenti politiche del gruppo misto rispondono a dinamiche parlamentari magari finalizzate ad assicurare stabilità di governo ma che non trovano poi corrispondenza nell’elettorato. Il che conferma l’opportunità, a tutela della volontà degli elettori, d’introdurre misure anti-transfughismo parlamentare, come quelle che entreranno in vigore nella prossima legislatura al Senato e purtroppo invece non approvate alla Camera, con un grave disallineamento sul punto tra le due assemblee.

A tal proposito – e veniamo alla terza considerazione – pur con l’ampia maggioranza conseguita al Senato, rimane un’incognita come tale assemblea possa farsi carico con appena 200 senatori dello svolgimento delle funzioni espletate alla Camera con il doppio dei componenti. Certamente, come dicevamo, il Senato ha meritoriamente cercato di prevenire tali problemi, ad esempio riducendo da 14 a 10 il numero delle commissioni. Ma è tutto da verificare come i senatori della maggioranza possano garantire, soprattutto in commissione, sempre e comunque la loro presenza per assicurare il vantaggio numerico (ad esempio sarà difficile che un senatore possa diventare ministro), come è tutto da verificare come i senatori della minoranza possano efficacemente esercitare le loro essenziali funzioni di critica e di controllo. Dicevamo dell’ampia maggioranza conseguita dal centro-destra.

Per quanto vituperata e criticata, la legge elettorale ha funzionato bene perché ha premiato le forze politiche capaci di coalizzarsi. Del resto, ai volutamente smemorati vale forse la pena ricordare che questa legge fu approvata nel 2017 per penalizzare il M5s (che allora come oggi sdegnosamente rifiuta di coalizzarsi) e, di contro, per premiare, attraverso i 3/8 dei seggi uninominali, le coalizioni maggioritarie. In un paese storicamente da sempre spaccato a metà tra destra e sinistra, e in cui gli spostamenti elettorali si verificano piuttosto al loro interno (come dimostra il successo di Fratelli d’Italia a scapito di Lega per Salvini e Forza Italia), sono infatti le alleanze che determinano il risultato che quindi, da questo punto di vista, era già scritto nel momento in cui si è delineata l’offerta politica. Certo, anche alla luce di quanto accaduto nelle trascorse legislature, si può dubitare della coesione di una coalizione vincente composta da forze politiche che aveva posizioni diverse rispetto al governo Draghi (come di contro non si può non rilevare come le forze di centro sinistra non si siano presentate unite pur avendo sostenuto tale governo). E i dati del transfughismo parlamentare di questa legislatura (401 cambi di gruppo alla Camera e 198 al Senato) dimostrano la fragilità di tali coalizioni, buone per vincere ma poi rivelatesi pessime per governare.

Ma questo non fa altro che confermare come non si possano imputare alla legge elettorale problemi che hanno piuttosto a che fare con la debolezza del nostro sistema parlamentare e la strutturazione del nostro sistema partitico, a cominciare dalla scarsa loro democrazia interna. Dunque la legge elettorale ha funzionato perché ha premiato la coalizione più votata, dandogli i numeri per governare. Dopo il parlamentarismo compromissorio che ha caratterizzato le ultime due legislature, in cui i governi sono nati per alleanze parlamentari post-elettorali, siamo ritornati ad un parlamentarismo maggioritario in cui il governo è indirettamente designato dagli elettori ed il leader del partito più votato diventa il presidente del Consiglio. È ragionevole attendersi, pertanto, una rapida conclusione della fase di formazione del governo, dopo la elezione dei presidenti delle Camere (su cui ritorneremo per la loro strategica importanza politico-istituzionale) e la costituzione dei gruppi parlamentare. Come accadde nel 2008, dopo la vittoria di Berlusconi (6-15 maggio 2008), tra l’apertura delle consultazioni e la fiducia delle Camere potrebbero trascorrere appena 8 giorni (al netto, ovviamente, di eventuali più o meno esplicite opposizioni da parte del Presidente di nomine ministeriali, dopo il caso Savona: ma anche su questo ritorneremo, per quanto il flop di Salvini e, soprattutto, le sue attuali pendenze penali rendono improbabile e comunque inopportuno il suo reinsediamento al Viminale).

Il che peraltro permetterebbe al Governo di giurare ed ottenere la fiducia entro la fine di ottobre e quindi di presentare subito la legge di bilancio espressione del nuovo indirizzo politico. Il che è assolutamente legittimo perché in democrazia il risultato degli elettori va rispettato e tutelato. Da questo punto di vista le reazioni allarmate a allarmistiche denotano talora un inaccettabile senso di superiorità da parte peraltro di chi, dicendo sempre no, non ha corrisposto alla domanda di cambiamento del paese. Piuttosto il timore è che l’esercizio del potere politico conquistato possa, come detto, mettersi più o meno surrettiziamente in rotta di collisione con i principi e diritti fondamentali sanciti in Costituzione. Questi sono i limiti invalicabili che istituzioni di garanzia, opposizioni e stampa dovranno presidiare. Perché è così che la democrazia deve funzionare.