Il secolo di Henry Kissinger, la storia vista dagli occhi dell’ex Segretario di Stato americano

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Quando Adolf Hitler prese il potere in Germania nel 1933, lui, Heinz Alfred Kissinger, aveva già dieci anni ed era un bambino tedesco bavarese e borghese di famiglia ebrea che oggi compie cento anni e vive al trentatreesimo piano di un grattacielo di Manhattan, lo stesso dove abitava quando Gianni Agnelli, padrone della Fiat e del quotidiano “La Stampa” di cui ero inviato a New York, mi suggeriva di andarlo a trovare per chiedergli lumi. Agnelli e Kissinger formavano una curiosa coppia non male assortita perché avevano un’intesa: Kissinger avrebbe tifato per la Juve quando andava a Torino e Agnelli si sarebbe basato soltanto sulla sua visione del mondo.

Cento anni in fondo sono una cifra tonda soltanto perché abbiamo dieci dita, cosa su cui non concordavano i babilonesi che consideravano la dozzina una base più solida, ed Henry Kissinger ha compiuto un secolo, sta benissimo e dal telescopio della sua mente ordinata e preveggente guarda la storia come un animale domestico. Vede vicinissima una terza guerra mondiale che la sua generazione ha scrupolosamente scongiurato, ma che oggi diventa un mostro attuale perché nessuno sembra averne più il terrore. Henry Kissinger scelse di diventare americano e un patriota americano. Tanto che ebbe un celebre scontro con il primo ministro della neonata Israele, Golda Meir, alla quale disse quasi brutalmente di essere prima americano e poi ebreo. Golda rispose in tono minaccioso ed enigmatico: “Sì, però ricorda che noi ebrei leggiamo le parole da destra a sinistra e non da sinistra a destra”.

La questione dello Stato ebraico nato per decisione delle Nazioni Unite per essere gemello di uno stato palestinese che fu rifiutato dalla Lega araba, era allora la questione più rovente e dominante sulla scena mondiale. L’altra fu il Vietnam. Kissinger aveva provveduto alla svelta a disfarsi del suo primo nome Heinz Alfred per cambiarlo in Henry, ma mantenuto per tutta la vita un buffo accento tedesco che Kubrick subdolamente gli rinfacciò attribuendola personaggio guerrafondaio nel film “Dottor Stranamore” in cui la guerra nucleare scoppiava per demenza dei protagonisti. Non è stato mai un demente o meglio uno sciocco, né un uomo troppo sentimentale, avendo studiato la storia ed essendone stato un attore principale può essere messo a confronto soltanto col segretario fiorentino Niccolò Machiavelli, ma con animo costruttivo e non cinico.

Due sono state le grandi vittorie che ha incassato per la politica americana e anche per la pace del mondo. La prima fu quella di permettere al presidente repubblicano Richard Nixon, di cui era segretario di Stato dunque ministro degli Esteri, di chiudere l’orrenda partita della guerra in Vietnam avviata per eccesso di narcisismo dal presidente John Fitzgerald Kennedy, la cui Corte era paragonata a quella di Camelot per sfarzi reali e intellettuali, e che poi era stata incrementata dal suo successore Lyndon Johnson il quale lasciò al repubblicano Nixon l’esito di un disastro.

La guerra era persa e Kissinger pose come unica condizione che fosse persa con onore. Ma era persa. E all’onore non ci ha più pensato nessuno. Nixon dopo la chiusura del Vietnam fu travolto dallo scandalo Watergate e chiuse la sua carriera con ignominia, salvo diventare il mentore segreto del democratico Bill Clinton, che andava a trovare alla Casa Bianca attraverso un passaggio segreto. Disse apertamente di detestare e Hillary, la moglie di Bill, che considerava un’ambiziosa pericolosa. Kissinger prosegue la sua carriera con il tentativo di sistemare la questione mediorientale che vedeva allora in campo soltanto israeliani e l’Olp di Arafat. Gli anni ‘70 erano anni di guerra e di sangue ma anche di speranza. Era nato scienziato della storia ad Harvard dove aveva insegnato elargendo consigli agli abitanti della Casa Bianca che fossero disposti a seguire l’unico binario praticabile: quello del realismo.

E in nome del realismo mise a segno il suo secondo colpo: la Cina di Mao Zedong di cui non abbiamo più idea. La Cina era chiusa a chiave nessuno poteva entrare nessuno poteva uscire e le notizie arrivavano attraverso messaggi segreti. Sia la Cina che l’Unione sovietica avevano rifornito di armi pesanti e leggere l’esercito vietnamita in guerra con gli Stati Uniti. Ma in più la Cina era in stato di conflitto latente e imminente con l’Unione sovietica benché fossero le due massime potenze comuniste. Scontri continui avvenivano lungo le rive del fiume Ussuri e tutto il mondo di allora fantasticava su cosa sarebbe avvenuto al mondo successivo in seguito a quella guerra che non scoppiò.

E non scoppiò proprio grazie a Henry Kissinger il quale fra i due contendenti scelse la Cina per poter contenere la Russia in Europa e dopo alcuni colloqui segreti con il presidente Mao consentì l’inizio della diplomazia del ping pong, cosiddetta perché comincio davvero con un torneo fra giocatori americani e cinesi. L’Unione sovietica spiazzata da questa nuova intesa rinunciò allo scontro il Cina e diventò per la prima volta partner degli Stati Uniti che anno dopo anno la aiutarono, anche se fra zuffe e ritorsioni continue, ad accedere alla sua tecnologia e diventare quel che la Cina è oggi.

Come uomo politico ebbe l’ultimo momento di gloria subito dopo gli attacchi alle torri gemelle dell’undici settembre 2001, quando il presidente G.W. Bush gli affidò l’incarico di guidare le indagini per la ricerca dei colpevoli. Ma la cosa non piacque a tutti coloro che temevano un inasprimento dei rapporti fra Stati Uniti e le nazioni arabe ancora più rischioso di quello che portò il conflitto con l’Iraq.

Così Henry Kissinger preferì ritirarsi a New York nella sua splendida tana al trentatreesimo piano di un grattacielo da cui si gode la straordinaria vista di una città che ogni anno si demolisce e ricostruisce sotto i tuoi occhi. Non lo diceva apertamente ma nelle conversazioni private sosteneva che l’era della vera pace perenne sarà accessibile soltanto quando saranno cambiati i regimi russo cinese e iraniano. Ma si è sempre ben guardato dal consigliare avventure militari di qualsiasi genere perché dalla Seconda guerra mondiale in poi aveva imparato, e poi insegnato, la nozione più importante dura da capire benché sia banale: una volta lanciata una guerra nessuno è più in grado di fermarla né di prevederne gli sviluppi.

Sostenne, senza esserne entusiasta, la necessità del colpo di Stato in Cile contro Salvador Allende perché riteneva inammissibile che l’Unione sovietica, che possedeva già Cuba come stato armato e subalterno, mettesse anche le mani sul Cile. Fu per questo criticato, ma quel suo atto di realismo cinico fu visto come un segnale di concretezza in Italia dal segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer che ne trasse una lezione ideologica in tre articoli per il settimanale del Pci Rinascita, noti come progetto Vola del compromesso storico.