Qual è il paese europeo meno ostile a Putin? L’Ungheria di Viktor Orban. Quale membro Ue è il più restio all’applicazione della transizione ecologica e all’implementazione del libero mercato? L’Ungheria di Orban. Infine, quale tra i governi Ue è più sotto i riflettori per lo scricchiolare delle proprie fondamenta democratiche e per la debolezza del suo Stato di diritto? Manco a dirlo, l’Ungheria di Orban.

Nonostante tutto questo, da lunedì primo luglio sarà proprio l’Ungheria a fare da maestro delle cerimonie di tutta la politica europea. Il passaggio di consegne dal Belgio, del turno semestrale di presidenza, rientra nella gestione ordinaria della casa europea. E certo non ci si può mettere di traverso solo perché, a questo giro di poltrone, il chairman non ci piace. D’altra parte il semestre di turno, il Consiglio europeo in corso, l’approvazione dell’Agenda strategica per il quinquennio 2024-2029 e la nuova legislatura sono i componenti di una miscela potenzialmente esplosiva se messi nelle mani di chi apprezza il rischio. Si potrebbe obiettare che questo è un preconcetto in malafede. Può essere. Resta il fatto che siamo di fronte a una complicata lista di impegni in cui la visione di Budapest è diametralmente opposta a quella di Bruxelles. Ora – se non fosse che ogni cittadino europeo c’è dentro fino al collo – sarebbe da dire che si tratta di una serie tv di Netflix, che tiene lo spettatore incollato in modalità binge-watching per tutta la durata del prossimo semestre. Posto il fatto che i paradossi della politica reale vanno oltre l’immaginazione, vediamo i trailer delle singole puntate.

Anticipazione: “Tutto in cinque anni”.
Oltre ai nomi dei prossimi top jobs, sul tavolo del Consiglio europeo c’è l’Agenda strategica per il quinquennio 2024-2029. È un documento programmatico su cui, una volta insediata, la nuova Commissione dovrà basarsi per presentare le proprie proposte legislative. Sicurezza e difesa, resilienza e competitività, energia, migrazione, dialogo a livello globale e allargamento. Le consultazioni erano partite a novembre scorso, adesso è arrivato il momento di dare sostanza a questo piano strategico, fatto “per difendere le nostre democrazie e garantire pace e prosperità”, come ha detto Charles Michel mesi fa.

Prima puntata: “Defence first”
La sicurezza europea è la questione più urgente. Con il cambio della presidenza Nato ormai cosa fatta – Salute to the commander Rutte! – e le incognite delle presidenziali Usa, l’Unione europea ha bisogno di confermare a Zelensky – di recente a Bruxelles – che c’è anche lei. Ecco perché prima si sbloccano i finanziamenti Ue e prima l’Ucraina può tornare a combattere tranquilla (si fa per dire). Il Consiglio Ue ha deciso di inviare 1,4 miliardi di euro a Kyiv prelevandoli dagli extraprofitti degli asset russi immobilizzati. Il fondo European Peace Facility forse sarebbe stato più indicato, ma il suo ricorso avrebbe richiesto l’unanimità degli Stati membri, provocando così il veto ungherese. Fare la guerra a Putin, con i soldi di Putin, ha un suo perché. Bruxelles prosegue con il muso duro con Mosca. Vedi anche il nuovo pacchetto di sanzioni. Va tutto bene! Ammesso che si abbia la consapevolezza che questa mossa è già uno sgarbo a Orban prima ancora che sia diventato presidente di turno.
Di più: la politica di difesa comune non è una partita di football americano, in cui si guadagnano le yard e poi si va in meta. Servono giochi più lunghi, fatti di visioni di ampio respiro. In modo che sia gli amici sia i nemici sappiano che un esercito europeo per ora non c’è, ma ci sarà. Inoltre, che dice il programma della presidenza ungherese? La linea di Budapest, sulla carta, è di appeasement. Consolidamento della difesa comune, contenimento delle crisi in corso e sviluppo della filiera europea della difesa. Del resto, cosa ci si poteva aspettare: Orban che fa entrare i cavalli dei cosacchi alla Gande Place?

Seconda puntata: “Made in Europe”
La competitività economica è da mesi al centro del dibattito. Merito anche dei rapporti dei nostri ex premier, Letta e Draghi. Completamento del mercato unico, piena integrazione finanziaria dei 27 (con l’unione bancaria e quella dei mercati dei capitali), diversificazione delle forniture delle commodity per l’industria di trasformazione. Questa dovrebbe essere la struttura portante per rendere il Vecchio continente uno spazio attrattivo per gli investimenti e un hub innovativo dove vige la concorrenza leale alle medesime condizioni per tutti. Qui l’Ungheria è Giano bifronte. Mentre non si espone sugli obiettivi finanziari, va giù diretta sull’economia reale. Green Deal, Ucraina e supply chain con i fornitori extra Ue che hanno frustrato l’agricoltura magiara. Su questi temi di riconciliazione tra Bruxelles e Budapest non se ne parla.
Inequivocabile, inoltre, l’opposizione alle case green e allo sviluppo di energia solare. Quindi va chiarito come quel “New European Competitiveness Deal” di cui parla, o meglio accenna, il programma presidenziale possa coincidere con il Green Deal. E soprattutto con l’Agenda strategica che, invece, è ben chiara nel dire che si è competitivi se si è uniti. L’alternativa? La globalizzazione che rende insignificante ogni Stato membro Ue. D’accordo, una globalizzazione rimasterizzata rispetto a quella pre-Covid, ma comunque spietata. Concorrenza cinese, bassi costi di produzione indiani e potenza produttiva Usa. Per Bruxelles, la transizione ecologica è la nostra soluzione per restare competitivi. L’Ungheria non è certamente d’accordo. Sottovoce diciamo che, forse, non ha tutti i torti.

Terza puntata: “Una nuova idea d’Europa”

Qui si parla dei valori della nostra democrazia e del sentiero di integrazione che va avanti dal 1945 a oggi. L’Agenda strategica lo dice bene: “L’allargamento dovrà compiersi proprio nei cinque anni che verranno”. Georgia, Moldova e Ucraina sono ai blocchi di partenza. Tre nemici di Putin, tre “non amici” di Orban. A questo si aggiungono temi altrettanto nobili. Libertà individuali, diritti fondamentali, rispetto dell’equilibrio dei poteri e lotta alla disinformazione (soprattutto a opera di attori stranieri). Questioni non campate in aria, su cui l’Ue ha vinto il Premio Nobel per la pace, nel 2012, e per le quali ora si dichiara pronta ad assumerne la leadership globale. Quindi non possiamo fumarci questi primi sei mesi per il Niet di Budapest, che invece fa sue priorità la lotta all’immigrazione e una nuova scossa demografica. Che poi, al netto del condividere o meno, va ricordato che sono temi su cui, per l’immigrazione, ci sono gli accordi con gli Stati terzi, mentre la crescita demografica è di competenza dei singoli Paesi.

E poi?

E poi sembra che la politica europea, più che una limited serie di Netflix, sia un’incompiuta. L’Agenda strategica dà ampio spazio a tutto quello che ha scaldato i cuori e fatto girare i nervi (non solo) alla nostra società in questi ultimi cinque anni: le transizioni gemelle, ecologica e digitale, l’indipendenza energetica, l’economia circolare, le tecnologie generative, la sicurezza alimentare e il contrasto al cambiamento climatico. Di tutto questo, il documento programmatico della presidenza di Budapest non parla.
D’altra parte sarebbe scorretto dire che, dalla quarta puntata in poi, è tutto un work in progress per colpa di una sola nazione. L’Agenda c’è, d’accordo. Ma chi deve poi applicarla non è l’Ungheria. Bensì la Commissione. Si dice che Ursula von der Leyen sarà confermata. In realtà il Parlamento la aspetta al varco. Si dice pure che in questa legislatura cambierà poco rispetto ai cinque anni appena passati. Fatto è che il prossimo governo europeo manca ancora di un’anima e già gli hanno piazzato sul tavolo un manuale d’istruzioni preconfezionato. Come reagirà a quello che di fatto è un diktat? Questa è la vera incognita. Non l’Ungheria.

Antonio Picasso

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