Le manifestazioni contro il femminicidio
Il sessismo questione maschile, oggi lo dicono gli uomini
È da molto tempo che il rapporto tra i sessi non è più visto come “questione femminile” e le donne come un gruppo sociale svantaggiato, a cui riconoscere diritti e parità. Eppure, questa ottica non è mai scomparsa del tutto e a lungo si è atteso che gli uomini riconoscessero nel patriarcato la storia che ha visto il loro sesso da millenni arrogarsi il governo del mondo, sottomettere e sfruttare il corpo che li ha generati. Di quale violenza siano stati capaci i dominatori non sembra sia mancata la consapevolezza, per cui dovrebbe venire spontaneo chiedersi perché arrivi così tardi una presa di parola che dica con chiarezza “il sessismo ci riguarda”, interroga il modello di civiltà che abbiamo creato e le nostre vite.
«L’uomo non è una creatura mansueta – si legge nel saggio di Freud Il disagio della civiltà del 1929 -, bisognosa d’amore, capace, al massimo di difendersi se viene attaccata; ma occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, a umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo».
A fronte di tanta lucidità non può che apparire inspiegabile l’affermazione dello stesso Freud che l’unico rapporto «esente da ambivalenze» è quello tra la madre e il figlio maschio, e che un matrimonio diventa stabile quando la donna diventa anche la madre del proprio marito. Quanto può aver contato l’idealizzazione e il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria nell’occultamento del potere e della violenza con cui l’uomo si è appropriato del corpo femminile, quanto aver confinato le donne nel ruolo “naturale” di madri, quasi fossero un tutto omogeneo, e aver riservato a sé una individualità sottratta alle sue radici biologiche?
Gli uomini che hanno sfilato in silenzio per le strade di Biella, Potenza, Torino, Genova, Milano, Roma in questi giorni portavano mascherine e scarpe rosse, simboli della violenza maschile nelle sue forme più arcaiche e selvagge, i femminicidi, ma al medesimo tempo rivelazione di ciò che di inquietante sta sotto la “normalità”, l’apparente sicurezza degli interni di famiglia. Dover ammettere che in quella “diade amorosa” che è l’unità madre-figlio, marito-moglie, tanto esaltata dai teorici dell’amore romantico e dagli adoratori della madri, si annidano i risvolti più feroci del patriarcato è stata sicuramente la molla che ha fatto cadere arroccamenti difensivi, prese di distanza dalla mano armata dei propri simili. Quando “il re è nudo”, anche i suoi più timidi servi possono alzare lo sguardo su di lui. Non è sempre stato il giudizio dei propri simili a scoraggiare gli uomini, fin dalla più tenera età, a deporre quella maschera di virilità che li garantiva di un privilegio, di una appartenenza, di una protezione?
Nel saggio Einaudi del 1985, L’ultimo paradosso, Alberto Asor Rosa, scrive: «Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo la corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo (…) Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione e uscire a respirare aria pura. Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro stesso dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio (…) non appena sguardo con sguardo di nuovo si incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano – e scopriamo che non potremo mai lasciarli».
Eppure, qualche fessura della celata guerresca deve essere rimasta alzata se gruppi, sia pure isolati di uomini decisi a prendere parola per dire che la violenza sulle donne “li riguarda”, ha avuto con immediatezza sorprendente l’effetto di un raro benefico contagio, tanto da interessare città diverse e da sollecitare iniziative simili nei prossimi giorni. Se può dispiacere o sollevare critiche il fatto che in alcuni cartelli o slogan comparisse la parola “protezione”, in altri l’assunzione di responsabilità, sia per quanto riguarda l’aspetto strutturale della violenza che il vissuto del singolo, era chiara: «Come uomini dobbiamo metterci la faccia e rompere quel silenzio assordante nel quale siamo colpevolmente avvolti. Deve arrivare per noi il tempo della consapevolezza e della responsabilità. E di una modifica radicale della società che è ancora profondamente patriarcale, sessista e maschilista».
Con la pandemia, il confinamento nelle case, sappiamo che sono aumentate le violenze, oltre a un sovraccarico di lavoro per le donne. Ma nella generale insicurezza, nel venire allo scoperto di differenze di genere, di classe, di età, di culture, nella centralità che ha preso la cura come impegno di una collettività e non più destino “naturale” della donna, nell’evidente necessità di riconoscere fragilità e interdipendenza degli umani, si può pensare che siano cadute anche alcune delle barriere ideologiche che finora – come ha scritto Antonella Picchio – hanno coperto la “enorme debolezza” degli uomini e il “delirio di onnipotenza” delle donne, che si sono assunte per secoli, sia pure forzatamente, il compito di rendere loro “buona la vita”. Un movimento di uomini, capace di chiedersi che cosa significa oggi essere uomo, se è possibile «andare oltre la frustrazione e il rancore» (Stefano Ciccone), è ciò che possiamo augurarci.
Che questi primi segnali di “sollevazione” contro il dominio maschile, da parte di chi ne ha conosciuto il privilegio ma anche il peso e la disumanità, avvengano in prossimità dello “sciopero delle donne dal lavoro produttivo e riproduttivo”, indetto come da alcuni anni a questa parte dalla rete femminista e transfemminista di Non Una Di Meno, forse non è casuale e lascia intravedere alleanze là dove finora c’era indifferenza o ostilità.
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