Cronaca
Il silenzio di Willy
La rabbia acceca, il dolore rende muti. Sentimenti dai volti apparentemente opposti eppure accomunati, nel silenzio, alla morte.
Il silenzio è anche quello spasmo di sudore gelato e calore secco, irrorato solo dalle lacrime, che segue tragedie efferate come quella toccata in sorte al giovane Willy Monteiro Duarte.
Una fine violenta e atroce, in una notte gelida nonostante l’estate ancora sul calendario, e dura come il cemento che a Colleferro si produce, giunta a spezzare ogni sogno del ragazzo sorridente di origini capoverdiane.
La ridda di dichiarazioni: dai politici, per lo più di sinistra, alle bandiere a mezz’asta dei sindaci del Lazio, dall’indignazione social della gente comune del web alle chiacchiere nei bar che, più ci si avvicina a Colleferro, più diventano mugugni, pronunciati anche a bassa voce. Perché il branco di paesani palestrati e violenti, tutti del posto, rintracciati in meno di ventiquattro ore, pare faccia paura alla gente comune fuori dal web.
Increspature di vite, nel bel mezzo della provincia italiana, quasi ciociara, più simili a tragiche trame da cinema neorealista, e invece presenti, reali, capaci di accendere improvvisamente tutti i riflettori nazionali sulla tranquillità di Paliano, oasi di verde e viti, famosa fino ad oggi solo per la produzione dell’ottimo rosso Cesanese del Piglio.
E chissà quanti bicchieri, il povero Willy, ne avrà versati ai clienti dell’hotel ristorante di Artena, dove lavorava.
A Paliano i cronisti hanno cercato e trovato, in mezzo alla campagna, quei due genitori, arrivati tanti anni fa dall’Africa. Li hanno trovati senza fiato, distrutti dalla coltellata fulminea e lancinante che deve essere sentirsi dire: tuo figlio di 21 anni è morto.
Alcuni giornali ricostruendo gli attimi fatali della fine del giovane, hanno richiamato nei titoli il “Non respiro”, quell’ I can’t breathe, risuonato dagli Stati Uniti nella tarda primavera della pandemia, quando l’afroamericano George Floyd, a Minneapolis, ha trovato la morte, soffocato dal ginocchio di un poliziotto bianco.
Una associazione di neri italiani sabato a Roma, in piazza San Giovanni, manifesterà in memoria di Willy, chiedendo che “il razzismo diventi reato penale”.
Qualcuno, trasformando l’indignazione in irriguardosa cagnara da talk, sempre a mezzo social, ha chiesto il conto a Salvini, immaginando cosa avrebbe detto se la vittima fosse stata di pelle bianca e gli aggressori di colore.
Tutti ci siamo innamorati del sorriso dolce e spensierato di Willy che rimarrà eterno in due scatti, condivisi a milioni.
Solo i due genitori, però, hanno potuto vedere come la violenza e l’odio gratuiti, immotivati, dell’Arancia meccanica di paese consumatasi a Colleferro, possono aver ridotto il cranio, gli occhi, le labbra, il naso di questo figlio che oggi piangiamo tutti come nostro.
Il suo silenzio esanime in una demoniaca notte di fine estate ha spento anche il candore delle stelle, rimaste a guardare.
Due scrittori, Melissa Panarello e Filippo Nicosia, forse più di altri titolati a usare la forza delle parole, hanno trovato nella stringatezza di pochissime righe, la capacità di descrivere il senso di ingiustizia e malinconica impotenza che lascia la sempiterna assenza a cui è stato condannato un giovane, sorpreso quando la sua vita vera era appena solo cominciata.
Scrive Melissa: “Quello che a me più duole, l’unica cosa a cui davvero riesco a pensare, è quel ragazzo piccolo con il grande sorriso, alla paura che deve aver avuto negli ultimi istanti di vita, alle cose che lasciava, alla madre che lo piange, al padre che lo piange”. E poi Filippo: “Non smetterò mai di scrivere di violenza, di esplorare il male quotidiano. È quello che posso fare nel mio piccolo, non voltarmi, non evadere, guardare le bestie in faccia. Poi arriva la morte di Willy e io penso che scrivere non serve a niente”.
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