La proposta di scrivere nuove regole per la forma di governo nazionale rappresenta il corretto tentativo di chiudere la transizione incompleta della democrazia italiana. Gli italiani sono già abituati ad eleggere direttamente i vertici degli esecutivi degli altri livelli di governo della Repubblica. Dagli anni novanta lo fanno per tutti i Comuni e fino a pochi anni fa lo facevano anche per le Province. Dall’inizio del nuovo millennio scelgono direttamente anche i Presidenti di Regione. Si tratta dunque di uno schema diffuso che in questi anni, salvo motivate eccezioni, ha garantito stabilità nelle dinamiche di governo degli enti interessati, nonché una concreta legittimazione diretta e un giudizio effettivo nel rapporto tra cittadini e amministratori. Il tutto, va ricordato, in uno schema che ricade comunque nell’impianto del parlamentarismo: gli esecutivi comunali e regionali devono godere della fiducia dei rispettivi consigli per restare in carica, altrimenti si torna a chiedere agli elettori di pronunciarsi. Un mix tra forza e durata dei governi e salvaguardia delle istanze rappresentative che ha dato un bilancio soddisfacente tanto da non essere mai stato in discussione in tutti questi anni.
In questo contesto, la forma di governo nazionale è divenuta l’eccezione: schiacciata sul ruolo assoluto del Parlamento che compone e disfa governi – spesso come sappiamo mescolando anche i partiti tra maggioranza e opposizioni – si caratterizza per una assenza del rapporto diretto tra elettore ed esecutivo e Governi della durata media di un anno. Proprio quando il rapporto democratico pretende forme di connessione più significative con chi governa e proprio quando la velocità dei fenomeni globali e le dinamiche internazionali richiedono forza e durata del Governo, in Italia manteniamo un impianto troppo debole e per di più in un regime di bicameralismo perfetto. Non sfugga peraltro che con la riduzione del numero dei parlamentari e l’equiparazione dell’elettorato tra i due rami avremmo anche due camere che politicamente si atteggeranno quali “fotocopie” su una scala diversa numerica e quindi ancor più ingiustificate nel loro identico doppio ruolo.
Una forma di governo parlamentare fortemente razionalizzata – questo sarebbe il “Sindaco d’Italia” – garantirebbe al Paese alcuni strumenti di vantaggio evidenti senza sfociare in forme presidenziali e senza peraltro la necessità di sistemi elettorali maggioritari. Già adesso sia a livello comunale che regionale le formule per le elezioni sono di tipo proporzionale (con voto di preferenza ad eccezione delle vicende di alcune Regioni) e con un premio di governabilità in seggi del Consiglio per chi si aggiudica la competizione tra i Sindaci e tra i Presidenti. Premio, peraltro, che non comporta il dominio incontrastato dell’aula, lasciando un ruolo alle opposizioni, ma che tuttavia consente di concretizzare un programma politico sottoscritto non tra le forze politiche a seguito di faticosi “incontri” o fantasiosi “contratti”, ma sottoscritto tra le forze politiche e gli elettori.
Non vi è dubbio, certo, che ad un Presidente del Consiglio eletto dai cittadini – in quanto vertice dell’esecutivo – andrebbe riconosciuto il potere di nominare e revocare i ministri (come un Premier o un Cancelliere, niente di scandaloso, anzi!), restando al Presidente della Repubblica il ruolo di garante dell’intero impianto costituzionale. Con qualche correzione sulle maggioranze necessarie per eleggere sia il Capo dello Stato che gli altri organi di garanzia, l’Italia acquisirebbe finalmente forza anche in sede europea ossia in quel luogo, decisivo per la vita dei cittadini e delle imprese, dove potersi sedere al tavolo con Presidenti e Cancellieri che ora già restano in carica per l’intero mandato costituirà un vantaggio evidente. Chiudere il cerchio delle forme di governo italiane, dunque, rappresenterebbe un gesto di grande importanza per la democrazia italiana e per lo sviluppo del Paese. Chiunque governi.