"Cambiare si può, ma serve la partecipazione attiva dei cittadini"
Il sindaco Manfredi: “La mia Napoli: infrastrutture, programmazione e anarchia organizzata”
Il sindaco racconta la città che sta provando a rinnovarsi, armonizzando le sue caratteristiche culturali con un sistema strutturato. Modernizzazione e tradizione, unite da uno spirito riformista.
Incontro Gaetano Manfredi negli uffici di Roma dell’Anci, l’associazione dei comuni che presiede dallo scorso novembre, davanti ai resti di uno spuntino a base di focaccia con mortazza (che lui, magro come un chiodo, si può consentire…), e non posso fare a meno di ricordargli che nel 2018, in un momento buio per Napoli, gli dissi che avrebbe dovuto candidarsi a sindaco. Mi risponde, con la sua cadenza imperturbabile e pacata, che «era una cosa che non immaginavo mai potesse accadere», e forse è l’unica piccola bugia che si concede, in questa chiacchierata distesa che inaugura la pagina settimanale del Riformista dedicata alla città che governa ormai da 3 anni e qualche mese.
Ma quanto tempo è «teoricamente» necessario per cambiare davvero, in profondità, una città come Napoli, segnata da mille, note problematiche?
«La finestra temporale per fare interventi strutturali, realizzarli e programmarli in maniera irreversibile è quella di un decennio. Perché è chiaro che dall’ideazione alla realizzazione c’è bisogno di tempo, e anche molto».
Fammi qualche esempio, partendo da quello che stai facendo.
«Ti parlo di un caso emblematico, quello di Bagnoli, di cui sono commissario di governo. Per arrivare alla trasformazione dell’area, attesa da decenni, ci sono i tempi di completamento delle bonifiche, almeno 5 anni, e i tempi di realizzazione dei progetti di investimento, altri 5. Ecco perché ti dico 10 anni. Potrei parlarti allo stesso modo della realizzazione di una qualunque infrastruttura, per esempio quelle di trasporto, fondamentali per Napoli. Tra la parte di progettazione e di reperimento delle risorse che avvengono a valle – non prima, perché un finanziamento arriva se c’è un progetto – un’opera infrastrutturale complessa richiede non meno di 4-5 anni di progettazione, e almeno altrettanti per realizzarla».
E a quel punto, alla fine del mitico decennio, magari cambia il sindaco, cambiano obiettivi e progetti e si ricomincia da capo…
«Ecco, questo è un punto fondamentale, cui a Napoli non si è mai data la giusta attenzione. Facciamo il parallelo con Milano, che da molti anni subisce continue trasformazioni infrastrutturali, con sindaci di diversi schieramenti politici che però hanno continuato i progetti stabiliti in precedenza. La continuità di un progetto è fondamentale. E, per questo, la visione d’insieme di una città deve essere condivisa, proprio perché poi la trasformazione potrebbe essere conclusa da altri».
Al momento non ho l’impressione che tu abbia grandi oppositori sulla visione della città…
«No, anche perché metto molta attenzione sul coinvolgimento di tutti, è parte determinante del mio lavoro. Chi fa il mestiere di sindaco deve avere in mente l’eredità da lasciare alla città, che sia un valore il più condiviso possibile, ben al di là della sua appartenenza politica».
Naturalmente la garanzia di continuità la deve fornire l’infrastruttura burocratica e tecnica che, per definizione, va oltre i tempi di un’amministrazione…
«Questo è stato un mio grande investimento. Ne parlavo ossessivamente in campagna elettorale, dicendo che la cosa più importante era la ricostruzione della macchina comunale. Molti comunicatori politici mi dicevano ‘guarda che ai cittadini non frega niente di questo, non parlarne…’. Magari è così, ma io ho molto investito su questo, sulle risorse umane, facendo subito dei concorsi importanti e trasparenti, molto partecipati, lavorando sull’organizzazione del Comune. Oggi noi abbiamo una struttura amministrativa vera. Di questo sono piuttosto fiero».
E invece se parliamo della struttura tecnico-professionale? Lo dico da cittadino, a Napoli storicamente i lavori pubblici si sono sempre fatti male, magari a causa di appalti e subappalti al massimo ribasso… Si sente la necessità di un salto di qualità tecnico. Non è così?
«Sì, è molto importante che i dirigenti tecnici siano delle persone affidabili e di qualità. Io cerco anche di dare un contributo per le competenze che ho; ho una giunta con una prevalenza di competenze tecniche, e questo ci aiuta a sbloccare tanti progetti incagliati da anni. L’ascensore di monte Echia, per dire, era un progetto di 17 anni fa, che abbiamo concluso in un anno e mezzo, anche grazie ad assessori competenti. In generale non credo che la politica debba essere sostituita dalla tecnica. Ma in una fase di ricostruzione della macchina amministrativa, avere dei tecnici validi nei posti chiave aiuta».
Che rapporto c’è tra questo cambiamento infrastrutturale, economico e quello culturale, di mentalità, di comportamenti? È un tema, come sai, sempre presente nel dibattito su Napoli.
«Napoli non potrà mai essere Zurigo, pretenderlo sarebbe proprio sbagliato. Le caratteristiche di sregolatezza, anche un po’ anarchiche, della cultura napoletana, sono un nostro patrimonio. La sfida è costruire – lo dico con un ossimoro – una sorta di anarchia organizzata, strutturare un modello che si sposi con il genius loci, con le caratteristiche culturali e temperamentali tipiche di una città del sud. Perché in fondo quello che vedi a Napoli lo vedi ad Atene, lo vedi a Città del Messico. È arduo ma possibile realizzare un modello organizzativo con delle sue intelligenti flessibilità».
Applicando il concetto al turismo esploso in questi anni in città, non c’è il pericolo di esaltare le caratteristiche più discutibili e plebee del “genius loci”?
«Sì, l’esplosione del turismo comporta questo rischio. Sai, Napoli è come se fosse sempre su una lama del rasoio: da un lato ha la sua dimensione europea, perché è una grande capitale; dall’altro quella più plebea, localistica. Alla fine queste due anime convivono e conviveranno sempre. Però chi le amministra deve avere la capacità di far prevalere la parte europea senza giacobinismi, senza immaginare di cambiare unicamente dall’alto».
E dunque, guardando il problema dalla parte dei cittadini, che cosa possono o devono fare per contribuire al cambiamento?
«Possono fare molto. Innanzitutto avere la consapevolezza del cambiamento. Uno dei grandi difetti dei napoletani è quello di pensare che “non si può fare niente”, ma questo è solo un alibi. È chiaro che, se vuoi realizzare una trasformazione strutturale, devi avere un impegno attivo della cittadinanza. Su questo il ruolo dei ragazzi è molto importante: oggi abbiamo anche una gioventù napoletana che gira il mondo, va all’estero. È una gioventù più europea, meno locale, che può essere la vera speranza del cambiamento».
Cioè possono contribuire concretamente all’attrattività della città? Come?
«Oggi la scala dei valori dei giovani talenti è cambiata. Non pensano solamente all’opportunità di cambiare, ma anche alla cultura, alla qualità della vita, ai diritti, alle libertà. Vogliono vivere un luogo dove ci si senta a proprio agio, che abbia il livello di contaminazione di una città aperta. E questo Napoli ce l’ha. Poi, certo, è necessaria la qualità dei servizi, ci vogliono le metropolitane che funzionano. E ci vuole la crescita economica, che solo gli investimenti garantiscono. Solo così attrai talenti, crei anche opportunità di lavoro qualificato di cui la città ha bisogno. La sfida non è solo far rimanere i giovani, ma portare i giovani a Napoli da altre parti del mondo».
Parliamo della cosiddetta napoletanità. Tu sei estraneo a questa autorappresentazione un po’ fastidiosa…
«Non ho mai amato un’idea caricaturale di Napoli, mi dà fastidio il racconto per cui il napoletano è uno che deve fare casino, deve dare pacche sulle spalle a chiunque, addà sapè cantà… È un’autorappresentazione compiacente che svilisce la città. A volte da fuori ci vedono un po’ come fenomeni da baraccone. Anni fa ero in Giappone – i giapponesi sono molto amanti della canzone napoletana – e un collega mi disse: “Stasera devi cantare”. Io gli risposi: “Guarda, io sono del tutto stonato”. E lui: “Ma com’è possibile? Sei napoletano…”. Nella sua immaginazione, un napoletano non poteva che cantare. Questa è una gabbia di cui a volte diventiamo schiavi e vittime. Noi non dobbiamo negare le nostre caratteristiche, la nostra gioiosità, un approccio positivo alla vita, la diversità come un valore. Ma non dobbiamo diventare prigionieri di uno stereotipo, perché così ci confiniamo, ci autoghettizziamo. È proprio questo atteggiamento che poi sfocia nell’autopregiudizio, per cui gli stessi napoletani finiscono per dire che le cose vanno peggio di come vanno nella realtà».
Concludiamo, sindaco. Hai molto insistito, in questa chiacchierata, soprattutto su un metodo di lavoro, un modo di procedere che, al di là degli aspetti politici, io sento nella sostanza molto “riformista”.
«La complessità va gestita con il cambiamento. Questo vale in qualsiasi settore. Noi stiamo vivendo un periodo di grande trasformazione della società, in cui il riformismo deve affermarsi a tutti i livelli come un metodo, non come un movimento politico. Se vuoi affrontare la complessità delle trasformazioni, lo puoi fare solo con uno spirito riformista. Cioè proponendo dei profondi cambiamenti, ma realizzandoli progressivamente».
C’è sempre, però, l’incognita del consenso che non premia sul breve periodo.
«Sì, ma io – non essendo un politico di professione – non ho l’ossessione del consenso. Certo che serve, ne ero consapevole quando ho iniziato a operare con interventi molto strutturali, poco visibili. Lo so che all’inizio le persone dicevano: “Ma che sta facendo? Non sta facendo niente, è tutto fermo…”. E anche intorno mi dicevano: “Guarda che così perdiamo consenso”. Ma io ho insistito sull’applicazione di un metodo. Perché anche se rischiamo di perdere consenso ora, poi arriveranno i frutti e il consenso tornerà. Bisogna avere fiducia nelle persone, questo è il punto. Noi l’abbiamo avuta e l’abbiamo. E penso che alla fine ci sarà restituita. Quello che è certo, è che dal primo momento in cui ho messo piede a palazzo S. Giacomo ho pensato che Napoli non aveva bisogno di fuochi d’artificio ma di interventi profondi. I fuochi d’artificio scompaiono nel momento in cui esplodono, mentre gli interventi profondi restano nel tempo».
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