Il socialismo é una storia finita, troviamo parole contro le disuguaglianze

Tutto ciò che abbiamo chiamato in senso lato socialismo è scomparso o sta scomparendo dalla scena della storia. Scomparso è il comunismo. L’ultima sua versione ufficiale, nella grande Cina, sperimenta un capitalismo dispotico, con ottimi effetti sulla fame endemica dei suoi contadini e sulla sua economia, ma che nulla ha a che dividere con l’atto di nascita della rivoluzione maoista che fece vivere momenti eroici all‘intellettualità dell’Occidente. Ma in via di profondo indebolimento sono anche le socialdemocrazie che hanno tenuto il campo con la grande invenzione degli Stati sociali. Insomma, oggi il socialismo non c’è più nel mondo reale, ancora fragili residui dove è stato più forte, o dove lo fanno sopravvivere certi automatismi elettorali, e questo spinge a dire che un suo ritorno non si intravede.

Le rivolte che invadono le piazze del mondo, ricordate dal saggio appassionato di Fausto Bertinotti, hanno caratteri che vanno esaminati nelle loro diverse ragioni, non certo unificate dalla prospettiva di vari possibili socialismi, se questa parola deve avere un senso come immagino che debba essere. Nessuna di esse ha un carattere di questa natura. In generale si tratta di rivolte giovanili contro governi dispotici di vario tipo, piuttosto con rivendicazioni di diritti e di libertà individuali, come avviene in Iran, in Afghanistan, o di libertà politiche come a Hong-Kong.

E non parliamo dell’America latina, dove i movimenti di piazza degli anni passati hanno prodotto endemicamente, e solo con qualche interruzione, populismi di varia natura, chavismo, madurismo, peronismo in salse varie. In queste cose, così diverse tra loro, io non impegnerei il nome del socialismo. E lasciamo stare, per carità verso le loro patrie, le vecchie primavere arabe.

Che cosa è accaduto di quella idea che ha animato la storia d’Europa dalla fine del XIX secolo e ne ha mutato in radice la storia? Fu la “scienza della storia”, analizzata da Marx ne Il Capitale e nel Manifesto, a dar forma ai grandi movimenti di massa che di sicuro hanno mutato in radice la storia della democrazia. Lì c’era descritta la potenza del comunismo come destino della umanità. Scienza, ho detto, non filosofia della storia, perché compresa in una previsione morfologica costruita sulla dimostrazione della tendenza al crollo del capitalismo, di un capitalismo mondializzato nell’idea che ne ebbe Marx già nel Manifesto del 1848!

Nel 1917, data fatale, il movimento si divise, comunisti e socialisti revisionisti presero vie diverse, in un acutissimo dibattito, durato, si può dire, fino al 1989, altra data fatale. Ma a questa data, caduto irreversibilmente il comunismo reale, prese avvio lento e inesorabile anche il declino delle socialdemocrazie, secondo una previsione di Ralph Dahrendorf confermata sostanzialmente dalle cose avvenute, o in corso. Simulstabunt, simulcadent, egli scrisse con vista acuta, pensando al comune inizio, e parecchio di vero c’è in questa sua osservazione. Cadeva l’idea di una società socialista, ovvero di un’altra società. Cadeva quella identità originaria, che aveva condiviso l’idea del passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza.

E cadeva anche progressivamente il recinto dello Stato-nazione dentro il quale si realizzava il compromesso social-democratico, i confini si andavano slabbrando e ne incominciò a fuoriuscire qualcosa che non somiglia più a quanto avveniva nello Stato, protagonista dei suoi autonomi poteri sociali e costituzionali. Cade, con la rivoluzione tecnologica che ne ha spazzato via la fisionomia, la forma del lavoro nello Stato concepita e protetta.

Il socialismo, insomma, non sta più nella realtà, nelle sue varie forme, perciò è assai difficile “trovarlo” annidato in qualche parte, dopo una storia così tragica, ma anche così gloriosa. Ci si possono chiedere le ragioni, e fare qualche ragionamento sul futuro. Se mettiamo da parte l’esito totalitario del comunismo e ci concentriamo sulle altre vie del socialismo, il punto per me principale è il passaggio dalla mondializzazione come pensata da Marx – con al centro l’antagonismo di classe – all‘attuale globalizzazione, che stimola interdipendenza, ma scissione e disseminazione di potenze e di forze, populismi e sovranismi; insieme a un movimento straordinariamente ampio del capitale finanziario disseminato dappertutto.

Non solo, ma di fronte al quale non c’è più un soggetto universale, non c’è più il lavoro dell’operaio-massa incorporato nel capitale, da cui Marx vedeva nascere la necessità del socialismo; non c’è più la classe, il lavoro ha cambiato forma. La classe operaia esiste ancora, ovviamente, ma come soggetto sociologico, disperatamente impegnata nella difesa del posto di lavoro, e della continuità dell’impresa capitalistica, non esiste più come soggetto politico antagonista.

Ma fuori c’è tanto disordine, masse di esclusi, povertà, lavori precari, vite precarie, annidate negli angoli più disparati del processo di informazione e scambio, più che in quello produttivo, Dunque, tutto un altro scenario. E il capitalismo, lo accennavo, per quanto globalizzato, non è più l’Occidente che si planetarizza, ma è legato in gradi e modi diversi e opposti alle diverse società entro le quali pure agisce, con un rapporto differente con diritti di libertà, politiche, socialità etc. Il mondo globalizzato si scinde in mille mondi. E allora? Che fare di fronte a una realtà – e qui Bertinotti ha ragione – dove le diseguaglianze e i disagi aumentano con ritmo esponenziale?

Dove la salvezza della Vita si lega alla salvezza della Terra? Anche se dobbiamo subito aggiungere, cosa spesso dimenticata, che la globalizzazione ha sollevato dalla fame all’incirca un miliardo di esseri umani, fra Cina, India, Sud-Est asiatico, ha contribuito a mutare quel mondo, basta visitare le grandi megalopoli del Pacifico, e si resta con gli occhi sgranati. E questo non va mai taciuto quando si grida, anche con ragioni fondate, contro il neo-liberismo, mantra della sinistra. Il boomerang del globalismo è sull’Occidente e sulle sue borghesie, perché esso non è più centro dominatore del mondo, in un mondo ora senza centro. Non più capace, l’Occidente, di governarne e dominarne storia e sviluppo. Il capitalismo mai solo finanziario e selvaggio crea anche sviluppo nel mondo, non si gridi allo scandalo, crea grande mercato, grande commercio, tanto lavoro. Va educato, non distrutto.

Che fare allora?  Nessuno dice di star quieti in attesa di non si sa che, o con la celebrazione di ciò che è. Ma non è la parola “socialismo” che può mobilitare e orientare, se le parole devono significare qualcosa. Si lasciano aperti dei fini da raggiungere quando non ci sono più né i fini né i soggetti per renderli operanti. È necessario un altro tipo di lotta per l’uguaglianza, che dimentichi le forme obsolete del passato. In Europa non è più possibile tornare semplicemente al vecchio e nobile Stato sociale, erede di quella storia, l’Europa essendo impegnata in un tema tesissimo, come passare dal livello nazionale a quello sovranazionale, il tema dei prossimi anni: come trasferire la democrazia politica oltre i confini dello Stato, senza farle perdere alcuni connotati liberali e sociali, e come modificarne la forma in questo passaggio. I sovranismi sono il segnale che questo problema è irrisolto.

E allora? Dell’idea che fece nascere il socialismo rimane, voglio dirlo qui, l’impossibilità di fermarsi all’uguaglianza puramente formale davanti alla legge, ma la risposta a questo tema cruciale non sta più nelle coordinate di chi li lo ha fatto nascere. Soprattutto, non c’è più un’altra società all’orizzonte, anche perché quella attuale non ha più molto a che fare con quella tramontata, non è più una società di classe contro classe, cosa che orientava la lotta politica come destino. Per cui non può che diminuire il senso della “fraternità” che era anzitutto solidarietà di classe, di sindacato, di partito, o oggi dovrebbe sopravvivere non si sa come nella frammentazione di interessi e mestieri.

Nulla da fare, dunque? Assistere alle cose come sono? No di certo, ma il racconto sul futuro del socialismo non ci aiuta più a far progredire il mondo. Bisogna ritradurre la ormai inevitabile interdipendenza mondiale senza demonizzare il capitalismo come il nemico da battere, ma lavorando a un nuovo compromesso in cui la sua potenza, coinvolta dalla politica in un inedito compromesso, è più che mai necessaria. Per fare che cosa, dopo?

Lottare per tradurre il cosmopolitismo irreversibile di tutto, capitale compreso, ma pieno di buchi neri, in un cosmopolitismo umano, che sia alternativa a una geopolitica territorialistica che sta conducendo l’umanità in un abisso. Ci può essere un nuovo interesse di tutti in questa direzione. Avanza il tema della salvezza della Vita e della Terra che deve coinvolgere l’intera umanità. Ma il Novecento, con tutto il suo carico, è finito per sempre. Perché continuare a rievocare categorie e storie che con quel secolo sono anch’esse terminate? Forse perché solo il socialismo fonda la società dei giusti?

Cerchiamo le nuove strategie, le nuove parole, i nuovi fini, contribuiamo alla costruzione di una nuova cultura, di inedite alleanze, tutte adeguate alle straordinarie rivoluzioni dei nostri tempi.