«La globalizzazione passa attraverso i diritti, non i mercati», sosteneva con passione Stefano Rodotà. Osservando quello che sta provocando, anche in Italia nel mondo produttivo, saremmo tentati di dire che, come il capitalismo di cui è la manifestazione attuale, cambia pelle più velocemente e radicalmente di quello che riescono a fare il pensiero e l’azione politica e sindacale. E sono queste rapide mutazioni che allora rendono vano lo sforzo di puntellare diritti e tutele. Di fronte ai rischi di deindustrializzazione che si colgono in particolare in Europa si deve prendere coscienza che non sarà più sufficiente attestarsi su posizioni puramente “difensive” o di concorrenza “fratricida”. La trincea nel migliore dei casi potrà rallentare quel che avviene, ma sarà pur sempre una immobile linea Maginot facilmente aggirabile. Certo, nel momento nel quale emergono importanti questioni industriali occorre avere la forza di affrontarle con unità, realismo e determinazione, specie per impedire lo sfociare in drammatiche situazioni sociali.

Siamo in presenza di una prima fase della globalizzazione che ha concluso il suo percorso. La redistribuzione della ricchezza si è risolta in un maggiore accentramento di essa in meno detentori; i dazi, le guerre commerciali, l’emersione di potenti competitori come la Cina, l’incessante rivoluzione tecnologica hanno terremotato perfino il mito dell’economia globale come nuovo approdo in un’età dell’oro. E il predominio della finanza ha accentuato inevitabilmente gli squilibri. Tanto che, se ci si fa caso, le analisi più puntuali delle prospettive economiche in divenire vengono più dagli analisti finanziari che dai tradizionali economisti. Che sia in atto un cambiamento di scenario lo sostengono il Financial Times che ritiene necessaria una «nuova agenda» come Walter Stahel, considerato il padre dell’economia circolare che dà il benservito alla globalizzazione a favore della cosiddetta performance economy nella quale, almeno in parte già vivremmo. Il tramonto del vecchio capitalismo è per certi versi storia già “digerita” e lo si comprende dalle reazioni degli opposti che nel caso in questione sono gli Stati Uniti di Trump e la Cina. Il primo ha predicato protezionismo e ritorno a casa di capitali e produzioni, minando il vasto campo delle nuove tecnologie. La seconda, conquistando impetuosamente terreno nello sviluppo delle reti e della intelligenza artificiale, si è impossessata disinvoltamente della bandiera del libero mercato con la quale punta a rappresentare “interessatamente” anche le esigenze delle zone più povere del globo. Le nuove tecnologie risultano perciò il terreno privilegiato delle fondamentali strategie di “guerra” economica per il solo fatto che penetrano ovunque e ovunque stabiliscono nuove gerarchie (e diseguaglianze) a partire dalla conoscenza.

Finora l’unica reazione in qualche modo “alternativa” a questa evoluzione inarrestabile lo si può trovare nei fautori della green economy perché se non altro mobilita un pensiero, i giovani, mette in discussione anch’esso da un altro punto di vista la logica dei profitti e l’uso delle proprietà. A questo punto però dobbiamo chiederci se la strumentazione e le strategie di cui si dispone per far fronte a questa stagione difficile di cambiamenti sia adeguata o meno. E soprattutto cosa si può fare per non rimanere travolti e lasciare impoverire sia il tessuto economico che sociale non di un singolo Paese, ma dell’Europa. Vero che Ursula von der Leyen si è spesa perché sotto la sua Presidenza l’Europa faccia passi in avanti nella economia circolare e del clean tech. Ma il Vecchio Continente premuto da un lato dal confronto Usa-Cina e frenato dal timore dei sovranismi pare ancora troppo impacciato per esercitare il necessario colpo di reni. Ma tutti possiamo fare qualcosa per riemergere da questo pericoloso stagno di apparente impotenza. Ad esempio ragionare sui compiti dello Stato in una situazione mai contemplata in precedenza. Che attributi strategici deve avere, senza abbandonare le necessità del momento? È ancora e sempre lo Stato degli ammortizzatori sociali come unica risposta alle crisi, o deve indossare i panni di uno Stato regolatore dell’economia che ristabilisce il primato di politiche industriali sulle convenienze contingenti, asseconda concretamente le innovazioni, comprende che non esistono solo palcoscenici globali ma anche quelli di nuove economie locali, si impegna a fondo per realizzare le condizioni migliori per creare lavoro e non rifugiarsi nell’assistenzialismo?

Inoltre anche a sinistra, si riflette su un postulato che nel passato è stato oggetto di profonde divisioni: ma se il modus operandi del capitalismo è quello che osserviamo, non è forse giunto il momento di instaurare laddove non c’è o rafforzare dove già esiste la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende? Questo è un terreno di lavoro quanto mai importante per le forze sociali e ovviamente per il movimento sindacale. Che ha maturato soprattutto nel suo ruolo contrattuale proposte e strategie utili in questa direzione. Ma questa “patata bollente” non va lasciata in mano alla sola politica o a un’opera di nuova ingegneria istituzionale. È di tutta evidenza che occorra un nuovo patto che collochi l’iniziativa e le proposte di imprese e sindacati nella nuova fase economica che non solo produce imponenti mutamenti ma è anche attraversata da incognite pesanti, ad esempio i livelli di indebitamento e la gigantesca massa di liquidità che si muove a livello globale e di aree, ma anche il vuoto di investimenti che invece andrebbe intelligentemente comato. C’è bisogno di un nuovo patto che possa rianimare anche un grande dibattito sul futuro coinvolgendo soprattutto i giovani con le lavoratrici e i lavoratori. Non si può fare altrimenti perché le inadeguatezze delle attuali classi dirigenti sono tali che difficilmente potranno essere colmate in breve tempo. Vanno viceversa incalzate. Il divario fra ciò che si manifesta e le risposte che si cercano di dare però è talmente alto da far temere che sia prossimo ad un livello di guardia. Continuare a restare fermi nelle vecchie certezze è assai pericoloso. Sarebbe come rimanere impigliati nella rete della memoria, quando invece la realtà corre a velocità della luce. Non ce lo possiamo permettere.

Paolo Pirani

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